Parla la badessa del Monastero delle monache benedettine di Fermo, nelle Marche
Prega e offre la propria agonia al Signore per salvare una persona posseduta da una «malattia spirituale». E ci riesce. La protagonista di questa storia è suor M. Raffaella Strovegli del Monastero di clausura delle Monache benedettine di Fermo (Marche). L’episodio è avvenuto nella primavera del 2009, ma è stato reso noto solo in queste settimane.
Lo racconta a Vatican Insider la badessa del Monastero madre Maria Cecilia Borrelli, in un’intervista nella quale si affronta anche il tema della clausura e della vita contemplativa.
Suor Raffaella Strovegli, San Pio da Pietrelcina e un uomo sconosciuto…
«Alla porta del Monastero arriva una coppia affranta che bussa al nostro cuore per una preghiera forte a favore di un parente affetto da una malattia spirituale. Detto, fatto: un biglietto col nome del “paziente” è affisso alla bacheca “orante”, strapiena di mille intenzioni. La comunità si attiva da subito, sollecitata dall’sos “accorato” dei due “barellieri”. Il gruppo delle anziane - esperto in materia - si dà da fare in modo particolare; suor Raffaella, che ne fa parte, mi chiede sempre come sta quella persona, nell’attesa trepidante di una lieta notizia che arriva domenica 19 aprile 2009, giorno antecedente la sua morte avvenuta - dopo oltre un mese di ricovero ospedaliero - la sera del 20 aprile, appena terminato il primo versetto del salmo 32 pregato insieme “Esultate, giusti nel Signore, ai retti si addice la lode”. La notte stessa, quella persona liberata e toccata dalla grazia, sogna padre Pio che gli dice di recarsi presso il nostro Monastero per ringraziarci delle preghiere che gli hanno ottenuto la guarigione, ma in modo particolare suor Raffaella che il Signore aveva appena chiamato a Sé. Di buon mattino, vediamo entrare nella nostra cappella un giovane dal viso sconvolto che si guarda attorno come in cerca di qualcosa, di qualcuno. “Chi è?”: ognuna di noi si chiede. Non lo conosciamo, ma l’osserviamo. Questi si accorge all’improvviso che nel mezzo del coro monastico c’è una bara, si avvicina, s’inginocchia, chiede il nome della defunta, piange, resta a lungo in preghiera. Avvicinatolo, mi racconta tutta la storia che ho appena trasmesso: un nome prende un volto!».
Quali sono le riflessioni, i ragionamenti e i pensieri che Le ha suscitato questo avvenimento?
«Tutto quanto detto sopra conferma che la vita nascosta in Dio nelle mura di un Monastero è davvero donata “per gli altri”; anche quando l’età avanza, le forze vengono meno, si è costretti su una sedia a rotelle - come nel caso della nostra cara suor Raffaella - si è in servizio “a tempo pieno” in un altro modo, non meno fecondo!».
«Rinchiudersi» in un monastero di clausura: è deprimente e noioso come molti pensano?
«Nel Monastero c’è quanto è necessario, non di più! “Il di più” ci distrae da Dio. Il godimento e l’apprezzamento delle cose che ci vengono date aumentano nella misura in cui abbiamo consapevolezza che ogni cosa ci viene affidata da Dio e non ne siamo padroni. Che libertà! Ecco perché la dimensione della gioia è una nostra caratteristica: quando non si è schiavi delle cose, si ha la gioia della libertà».
Qual è il senso della vita contemplativa?
«La nostra vita è un tuffo continuo nei salmi nei quali troviamo noi stesse il positivo e il negativo. Ogni volta che si prega col cuore, la giornata acquista una qualità e un gusto diversi. La “regola” benedettina dice che pregare è lavorare, è vivere, è amare. Il Monastero, allora, diventa come un faro nella “notte” del cuore umano, proiettando la luce di Cristo che indica la rotta».
Da : Vatican Insider
Domenico Agasso jr