DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO XII
SUI PATRONI D'ITALIA
SANTA CATERINA DA SIENA
E SAN FRANCESCO D'ASSISI
SUI PATRONI D'ITALIA
SANTA CATERINA DA SIENA
E SAN FRANCESCO D'ASSISI
Domenica, 5 maggio 1940
Ammirevole spettacolo e al tutto degno della universale paternità apostolica,
Venerabili Fratelli e diletti Figli, fu più volte, in secoli dal nostro lontani,
il vedere in questo insigne tempio di Santa Maria sopra Minerva i Successori di
Pietro, Nostri Antecessori, venuti con solenne corteo a celebrare i divini
misteri nella dolce festività della Santissima Annunziata, e onorare con mano
amorevole la pubblica distribuzione alle fanciulle di doti claustrali e nuziali,
estimatori, com’erano, della verginità sacra a Dio e della onesta maternità
familiare, vegliante, insieme con gli angeli celesti, sulle candide culle, nidi
di angeli umani.
A tale lieta storica ricordanza l’animo Nostro esulta in mezzo
al Nostro amato popolo che Ci circonda devoto; e nella visione del passato, se
pur bello di altra luce, contempliamo rinnovato e ripresentato, in festa di
duplice e novissima aureola, lo splendore di questo altare, sotto cui dormono le
venerate spoglie di una vergine eroica, sposa di Cristo, paladina della Chiesa,
madre del popolo, angelo di pace all’italica famiglia.
Al Nostro sguardo accanto
a lei leva la fronte un poverello, vestito di saio e cinto di una corda,
dall’aspetto serafico, dalle mani e dai piedi segnati di cicatrici, dall’occhio
che contempla il cielo, i monti e le valli, il valico dei fiumi e dei mari, e
nel suo amore e nel suo saluto abbraccia l’agnello e il lupo, gl’infelici e i
felici, i concittadini e gli estranei.
Sono questi, o Italia, i tuoi alti
Patroni al cospetto di Dio, il quale pure ti ebbe privilegiata fra tutte le
sponde del Mediterraneo e degli oceani, stabilendo in te, attraverso le mirabili
vicende di un popolo prode, ignaro del consiglio e della mano divina, la sede e
l’impero pacifico del Pastore universale delle anime redente dal sangue di
Cristo. Caterina e Francesco, sotto il beatificante ciglio di Dio, guardano Roma
e le regioni italiche, perché l’amore, che nutrirono quaggiù vivendo e operando,
non si spegne nel cielo, ma si rinfiamma nell’imperituro amore di Dio.
La
carità, che non viene meno verso Dio e verso i fratelli e fa che a Dio la mente
dell’uomo rivolga se stessa e le sue azioni, è religione, che, quanto più sale
al cielo e adora, tanto più nel ridiscendere in mezzo agli uomini si espande e
grandeggia, illumina e riscalda, come i raggi emananti dal sole.
E sole di Siena
fu Caterina, a quel modo che sole di Assisi fu Francesco.
I loro raggi furono
luce e calore non solo dell’Umbria e della Toscana, ma ancora delle terre e
del cielo d’Italia, e oltre i confini delle Alpi e del mare.
Due anime giganti
in fragili corpi: anima di virago la vergine di Siena; anima di cavaliere il
giovane di Assisi.
Uguali e diverse; perché è vanto della santità il pareggiare
i suoi eroi nell’ardore e nel fuoco dello spirito; come è arte sua il
differenziarli nelle vie e nelle opere anche di un medesimo bene, e rendere
l’uno più pronto a conversare cogli umili, l’altra più presta a trattare coi
grandi; l’uno vestito del suo scuro saio di Patriarca della milizia francescana,
l’altra in abito candido sotto il nero manto domenicano.
Il manto domenicano e
il saio francescano, che già per le sue vie la Città eterna vide in Domenico e
in Francesco abbracciarsi con palpito di perenne amicizia, oggi s’incontrano
nell’ombra di questo glorioso tempio innanzi alla tomba di Caterina da Siena, e
si uniscono fraternamente nell’esaltare in Roma i due primari Patroni celesti
d’Italia.
Se le sacre spoglie di Domenico e di Francesco sono lontane, qui
presenti stanno i figli dell’uno e dell’altro Patriarca; e dalle loro labbra
esce una voce che fa un solo coro risonante dei nomi di Caterina e di Francesco
e li avvolge nella stessa lode e invocazione, cui non vale a dividere o scemare
il tempo che li separa, mentre li congiunge una medesima santa idea di lotta e
di pace per Cristo, per la Chiesa e per l’Italia.
Dio fece grande e operosa in
Caterina la donna; operoso e grande in Francesco l’uomo, esaltando in essi, con
tratti di divine e somme immagini, le radici dell’umana famiglia, e coronando
ambedue del sigillo di stimmate di passione ineffabile, in Francesco aperte, in
Caterina (lei vivente) invisibili, quasi a dimostrare che anche sotto il velo
della carne con un medesimo dolore si vive e si opera nell’amore.
È il mistero
della vita e dell’opera dei santi, degli eroi e delle eroine di Cristo: di
sublimarsi nell’amore per inabissarsi in un dolore, che è imitazione di Cristo,
compassione degl’infelici, sacrificio e olocausto di se stessi per la loro
rigenerazione e concordia, restaurazione dei costumi, rimedio dei mali, lotta
per il bene e per la pace, vittoria e trionfo della verità nella giustizia e
nella carità dei fratelli e dei popoli; in un dolore che non soffoca o spegne il
sorriso sul labbro, né la benignità della parola o nel cuore il balzo della
tenerezza e l’ardore del coraggio.
Non è forse questo il gaudio di Paolo negli
affanni delle sue tribolazioni? «Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra
» [1].
Caterina era nata con un cuore di donna e un ardimento di martire, con una mente
pronta e un animo virile; e in lei voi vedete un fulgido esempio di ciò che in
tempi agitatissimi può la donna forte.
Se, di sotto a quest’altare, si levasse
viva in mezzo a noi, ne udireste, meglio che dalle mirabili sue lettere,
l’ardente e mite impeto di uno zelo apostolico, vibrante in voce di vergine, la
quale altra patria non conosce che il cielo, e in cielo vorrebbe cambiata anche
la patria di quaggiù.
La Chiesa di Cristo, ella scrive, è un glorioso giardino,
dove Dio mette i suoi lavoratori che lo coltivino, e quei lavoratori siamo tutti
noi; in un modo, tutti i fedeli
cristiani, i quali debbono lavorare con umili e sante orazioni e con vera
obbedienza e riverenza alla Santa Chiesa; in altro modo, coloro che sono posti
per ministri dei santi sacramenti a pascere e nutrire spiritualmente i credenti;
in terzo modo, coloro che servono la Chiesa fedelmente dell’avere e della
persona per il suo incremento e la sua esaltazione, « virilmente affaticandosi
con vera e santa intenzione per la dolce sposa di Cristo. È questa (dice la
vergine Senese) la più dolce fatica, e di più utilità, che alcuna altra fatica
del mondo » [2].
Tutto è dolce per lei, che di dolcezza insapora la croce e la
morte, il cielo e la terra.
E in questo servigio della Chiesa voi ben
comprendete, diletti Figli, come Caterina precorra i nostri tempi, con una
azione che amplifica l’anima cattolica e la pone al fianco dei ministri della
fede, suddita e cooperatrice nella diffusione e difesa del vero e nella
restaurazione morale e sociale del vivere civile. « Ora è il tempo dei martiri
novelli…», essa esclamava, « però che, servendo alla Chiesa e al Vicario di
Cristo, servite a… Cristo crocifisso » [3].
E l’eroica vergine di Siena, sorretta
dalla visione e dal mandato del suo dolce Gesù, combatté per la Chiesa e per il
Vicario di Cristo; nuova Debora, liberatrice della sua gente [4], nuova Giuditta
senza ferro.
Se per lei la Chiesa era il giardino dei cristiani, era pure
insieme la vigna del Signore, nella quale conviene lavorare la vigna dell’anima
nostra e la vigna del prossimo [5], che è quella dei fratelli per sangue, per
vicinato, per patria; tra i quali si sentì figlia, sorella, madre di affetto, di
compassione e di aiuto.
E come lavorasse l’anima sua, non lo dicono forse i
gigli virginei del suo cuore e il fuoco della carità, onde fu innamorata di Dio
e del prossimo?
Nella breve giornata dei suoi trentatré anni, quanto non fece
questa angelica vergine d’Italia!
Dall’opera di lei comprenderete l’indole e la
tristezza del suo tempo, quando la sede di Pietro era esule dall’Urbe, quando
Roma vedovata era in preda alle fazioni, quando i municipi italiani venivano
parteggiando e fieramente guerreggiandosi, quale per i guelfi, quale per i
ghibellini. Nell’azione di questa donna forte splende tutto ciò ch’è di vero, di
onesto, di giusto, di santo, di amabile, tutto ciò che fa buon nome, che è virtù
e lode di disciplina [6].
A lei la massima gloria di aver ricondotto a Roma il
Pontefice, impresa, a cui non valse la più armoniosa lira del suo secolo
temprata dalla dolcezza italica.
Per Urbano VI Caterina fu la rinata Matilde di
Canossa; e con lettere a regine, a principi, a municipi, gli mantenne fedele
l’Italia, umiliando l’avversario con l’esaltazione della vittoria riportata a
Marino dall’esercito di Alberico da Barbiano.
In Roma morirà l’eroica donna;
moriva nel settimo lustro dei suoi anni pieni di ardente vita; moriva fra la sua
famiglia spirituale commossa, presente l’addoloratissima sua madre. Spettacolo
memorando e sublime in quell’ora della nascita, non alla terra, ma al cielo! Moriva pregando per il Papa
e per la Chiesa, divina tutrice della fede e della gloria d’Italia; e nella
tranquillità della morte, aspettando la risurrezione rinnovatrice di vita più
fulgida e non caduca, Noi la contempliamo sotto quest’ara e invochiamo il suo
potente nome a protezione non solo di Roma, ma dell’Italia tutta.
Accanto a
questa santa eroina di Siena degno è che s’invochi il nome del santo eroe di
Assisi: Francesco, cavaliere amante della povertà di Cristo, ambiziosa del cielo
ch’è suo, padre delle sacre legioni degli amici del popolo, suscitatore della
carità diffusiva di pace e di bene fra gli uomini e nelle famiglie.
E veramente
egli, in tempi non meno tristi, precorse Caterina, e, al pari di lei, fu
all’Italia un’aurora di rinnovamento spirituale e pacifico. Ignudo atleta fra i
famelici dell’oro, con un cuore più largo che la miseria umana, sprezzatore di
ogni dispregio, era pure stato il fiore dei giovani, prodigo e amante del lusso,
il sonatore e il cantore delle allegre comitive, il guerriero prigioniero di
Perugia, prostrato da Dio nel cammino verso le Puglie, per risorgere vaso di
elezione a portare il nome di Cristo in mezzo al popolo e alle genti.
L’amore
dei poveri e degl’infermi lo fece tra i poveri il più povero; perché nel povero
contemplava l’immagine di Cristo; perché in questa gran valle della umanità sono
più gli umili ed i poveri che i grandi ed i fortunati, a quel modo che sono più
le valli e le pianure che i monti sulla faccia della terra.
Mistiche nozze
innanzi al duro suo genitore contrasse con la povertà, ascendendo con lei il
sentiero della vita, lieto e operoso, fino al monte dalla nudità crocifissa
sigillata nelle sue carni. Una tale nudità di beni terrestri lo collocò
superiore agli onori e alle irrisioni, agli allettamenti e ai disagi, a tutto
ciò che il mondo chiama beni e mali, largendogli quella ricchezza di spirito,
che, nulla avendo, ha ogni cosa, perché nulla vuole, o, per meglio dire, nulla
vuole, perché nel suo nulla trova ogni cosa, avendo deposto ogni desiderio di
quaggiù per riporre ogni brama nel Padre celeste che nutre gli uccelli dell’aria
e veste i gigli del campo.
Il poverello di Assisi, coperto di un saio ricamato
di gloriosi squarci, avuto da un pezzente in cambio delle sue ornate vesti,
levava, qui in Roma, sulle soglie dell’antica basilica del Principe degli
Apostoli, la bandiera della povertà, quanto più lacera, tanto più bella, e
apriva un nuovo cammino ai campioni della santità e della virtù, ai moderatori
delle passioni umane, ai conciliatori delle discordie cittadine, ai restauratori
della convivenza familiare e sociale, ai rinnovatori della pubblica pace e
tranquillità.
Quanti mossero sulle sue orme i piedi! Quanti si adunarono sotto
le stuoie delle sue capanne alla Porziuncola! Quante vergini con Chiara di
Assisi furono sue discepole! Quanti Frati Minori e Terziari guardarono a lui!
Roma vide più volte Francesco pellegrino per le sue vie; lo vide prono innanzi
al Pontefice approvante la Regola di lui; lo vide stringersi al petto Domenico;
e vide ambedue venerare come Madre la Santa Chiesa Romana, fratelli nel
servirla, nel propagarla e nel difenderla, com’erano fratelli nella sequela del
primo consiglio di Cristo.
La povertà di Cristo non
impiccolisce il cuore, non restringe né spegne l’ardimento dell’animo generoso,
ma alleggerisce il fardello della via, mette le ali al piede, infiamma lo zelo
per accendere in ogni terra quel fuoco, che il Redentore era venuto a portare
quaggiù. Così l’amore di Cristo trae Francesco dalla sua Tebaide, lo fa araldo
del Vangelo, apostolo e adunatore di apostoli, pacificatore e padre di mistici
cavalieri della pace e del bene, annunziatore del regno dei cieli nell’Umbria,
nell’Italia, nell’Europa, nel mondo.
La sua parola risonò in Assisi, nella valle
di Spoleto, per le regioni italiche; i suoi piedi lasciarono orme per le strade
di Spagna, sul suolo di Egitto, della Siria e della Palestina, di là
dall’Adriatico; ascoltarono la sua voce popoli di diverse lingue e costumi, il
Sultano del Nilo, gli uccelli della foresta.
Ardente il suo cuore palpitava per
tutte le creature di Dio, e a lui erano fratelli e sorelle il sole, la luna e le
stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la nostra madre terra.
Messaggero del gran
Re, se dai Capitoli generali dei suoi frati diletti diffuse missionari per
l’Europa e nell’Africa, fortemente amò il paese, dove Dio gli aveva dato così
dolce luogo nativo, e di qua e di là dall’Appennino peregrinò sovente, spargendo
colla parola della fede e coll’esempio della virtù il profumo di quella santità
cortese, lieta, amorosa di Dio e della natura, ardente della mansuetudine e
della pace di Cristo, che coi suoi figli fece dell’Italia la terra di Francesco,
a lui fervidamente devota, stringendo col cingolo francescano pontefici e re,
ricchi e poveri, felici e sventurati, famiglie e popolani di ogni condizione e
di ogni età.
Invocate dunque, o Romani, invocate, o diletti figli d’Italia,
Francesco di Assisi e insieme a lui Caterina da Siena, quali alti
Patroni vostri
innanzi a Dio.
Ai piedi di molti eroi di santità già vi inchinate
pregando,
implorando, ringraziando, lodando, e la vostra devozione e pietà, la
quale più
fervida e filiale si innalza alla Regina dei santi, sale al cielo non
meno
gradita a lei che al divino suo Figlio, glorificatore dei santi.
Ma Dio,
come
nella varietà delle stelle del firmamento, esalta talora, nella schiera
dei suoi
eroi, anime da lui plasmate a cose grandi, le prepara ai turbini dei
tempi, le
fa portenti della loro età e dei secoli, specchi di virtù e di
operosità,
modelli e sproni ai posteri, nelle vicende tristi e liete del vivere
civile, a
rinnovare e raffermare se stessi nel bene in pro della famiglia, dei
concittadini, per la Chiesa e per la patria.
Tali anime eroiche Noi
vediamo in
Caterina e in Francesco.
Che se la gran donna, che qui veneriamo ed
esaltiamo,
non varcò, come Francesco, i mari, né si spinse fra i barbari e
gl’infedeli, non
ne ebbe meno ardimentoso il cuore; e anch’ella, pacificando nel
cristiano
costume l’Italia, adoperandosi e soffrendo per la Chiesa e per il
Pontificato
Romano, soffrì e operò a onore d’Italia e a bene universale dei popoli.
Sono due fulgidissime glorie d’Italia, Caterina e Francesco; in essi,
ancor più che nelle
virtù cavalleresche, nelle arti, nelle lettere e nelle scienze, trionfa
il nome
italiano.
Seppero stringere in un amore i fratelli e Dio, e non mai
disgiungere
il servire a Dio dal servire i fratelli.
Ammirate dunque, diletti Figli, questi
due eroi di tempra italiana, cui la fede
sublima al cielo; e di lassù li invoca benigni e potenti, se altri mai,
protettori del diletto popolo italiano, così vicino alla sede di Pietro.
Quest’ora, diletti Figli, per voi, per tutti, grandi e piccoli, felici e
infelici, per il mondo dei popoli, per l’Italia, è ora di preghiera e
d’invocazione del patrocinio e dell’aiuto dei santi; mentre il turbine della
guerra, scatenatosi dalle profondità delle passioni e degli egoismi umani,
travolge nobili nazioni in lacrimevoli lotte per terra, per mare e nel cielo,
rumoreggiando oscuro e minaccioso al di là delle barriere delle Alpi; mentre
Dio, signore dell’universo, dal quale dipendono gl’imperi e che solo è Colui il
quale innalza e abbassa i troni e rende vani i pensieri dei popoli [7], guarda
quaggiù se vi sia uomo che mediti su tante rovine e se ne accori, e porga la
mano alla giustizia che richiama la pace. Presso questo Dio, che perdonando fa
più manifesta la sua potenza, imploriamo l’intercessione dei nostri insigni
protettori, Caterina e Francesco, custodia e difesa d’Italia.
O Gesù, Verbo onnipotente, Re dei secoli, che al dividere che faceste le genti e
al separare i figli di Adamo, fissaste i termini dei popoli [8] e entro i confini
d’Italia eleggeste e stabiliste il luogo santo, ove siede il vostro Vicario,
guardate benigno questo popolo e questa terra da voi prediletta, bagnata dal
sangue dei Principi dei vostri Apostoli e di tanti martiri, consacrata dalle
virtù e dall’opera di tanti vostri Vicari, vescovi, sacerdoti, vergini e servi
buoni e fedeli. Qui la fede in voi brillò sempre immacolata, santificò gli antri
e i rifugi dei vostri credenti, purificò i templi dei falsi dèi e innalzò a voi
basiliche d’oro dall’una all’altra sponda dei mari che ne circondano; qui il
vostro popolo più e più si strinse intorno ai vostri altari, dimentico dei
dissensi, ansioso della concordia degli animi; e qui questo medesimo popolo
implora da Voi, o Re divino delle nazioni, che corroboriate della vostra grazia
e del vostro favore l’intercessione, che a protezione nostra in modo più alto e
particolare affidiamo, presso il vostro trono di benignità e di misericordia, ai
vostri due gran Servi Francesco e Caterina.
Ascoltate, o Gesù, la nostra
preghiera, che per le loro mani presentiamo a voi.
Voi li amaste, voi li avete
fatti grandi e potenti; Voi amate anche noi, che umilmente vi preghiamo; e il
vostro infinito amore vi tiene presente in questo altare, cibo e bevanda a noi,
pellegrini verso il cielo, in una valle di miserie e di timori e pericoli.
Per
il celeste patrocinio dei gloriosi vostri Servi trionfi in noi la vostra grazia,
il vostro perdono, la munificenza vostra, la pace vostra.
Trionfate, o gran Dio,
in noi, nelle famiglie, in tutte le terre italiche, nelle pianure e nei monti,
nei palazzi e nei tuguri, nei chiostri e nei pubblici uffici, nella gioventù e
nella vecchiaia, nelle aurore e nei crepuscoli della vita.
Trionfate nel mondo,
o Dio degli eserciti; e quella pace, che il vostro cuore dona all’Italia, quella
pace che voi lasciaste ai vostri Apostoli e noi invochiamo per tutti gli uomini,
quella pace ritorni in mezzo ai popoli e alle nazioni, che l’oblio del vostro
amore separa, che il
rancore avvelena, che la vendetta accende.
O Gesù, disperdete il turbine di
morte che preme sull’umanità da voi redenta: fate un solo ovile pacifico dei
vostri agnelli fedeli e randagi; sicché tutti vi ascoltino e seguano la vostra
voce; tutte le genti vi adorino e vi servano, e tutte in una medesima fede,
speranza e amore salgano dal corso irrevocabile del tempo a inabissarsi nella
pace ineffabile dell’eternità beata.
Così sia.
[1] 1 Cor., VII, 4.
[2] Lettere di Santa Caterina da Siena, a cura di N. Tommaseo, vol. III, pp. 95-96.
[3] L. c., vol. 17, pp. 346-347.
[4] Iud., 4-5.
[5] L. c., vol. IV, p. 175 e sgg.
[6] Phil., IV, 8.
[7] Ps., 32, 10.
[8] Deut., XXXII, 8.