Dopo sette secoli, a Santa Croce celebrano i Benedettini.
Da Lotario e Imelda a Tolkien
“Non tutto quel ch’è oro brilla
Né gli erranti sono perduti;
Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza
E le radici profonde non gelano.
Dalle ceneri rinascerà un fuoco,
L’ombra sprigionerà una scintilla,
Nuova la lama ora rotta,
E re quei ch’è senza corona”.
E’ la poesia che Tolkien fa scrivere a Bilbo per Aragorn.
Leggerla in un bosco, su una cima di monte, in riva ad un lago spopolato, in un silenzio d’attesa, ha un “sapore” particolare. Ascoltarla in una chiesa fa strano sull’inizio. Poi, fa bene. Rompe schemi, unisce fili, lega ambiti diversi, tocca profondità come solo la poesia può. E prima di essa la parola del Vangelo.
Età contemporanea, fuori: auto accatastate lungo la via. Società liquida dove c’era terraferma, segatura dove c’era legno…
Un’altra età, dentro la Basilica Imperiale di Santa Croce al Chienti, a due passi da Casette d’Ete e Montecosaro scalo.
Sette secoli dopo, i Monaci Benedettini calcano di nuovo quel tempio.
Entrano in chiesa, fanno processione, salgono verso l’altare.
Entrano in chiesa, fanno processione, salgono verso l’altare.
Profumo d’incenso, inchini, paramenti sacri dal color rosso vivo e cappucci bianchi messi e tolti alla bisogna, alla bisogna del rispetto.
Un altare voltato, tre celebranti che danno le spalle al popolo di Dio, non per irriverenza ma perché ponti verso l’est dove nacque quel Bimbetto insignificante che diede significato e cambiò la storia del mondo.
Dopo sette secoli, una Messa, in latino.
Dopo sette secoli il canto gregoriano, che è unità, umiltà, devozione, torna ad alzarsi verso il cielo.
Il monastero non c’è più, i famigli non ci sono più, neppure la calzoleria, la cuoieria, l’orto dei semplici, la farmacia e tutto quello che la cittadella monastica portava con sè. Ma la chiesa è rinata dopo secoli d’abbandono.
Da Norcia, dal luogo dove Benedetto mosse i primi passi accompagnato dalla sua “nursina severitas”, sono arrivati in tredici: monaci/sacerdoti, monaci semplici, novizi. Li ha chiamati l’Associazione Santa Croce, hanno accettato di celebrare laddove la dimenticanza delle origini stava ingurgitando ogni cosa.
Tempio gremito. Chi avesse cercato solo anziani, ne avrebbe trovati, sì, ma molti meno rispetto a visi giovani e compunti, a veli posati delicatamente sul capo.
Chi avesse guardato labbra per coglierne l’immobilità per un latino scordato e sepolto, avrebbe visto bocche articolarsi nelle preghiere antiche, nella lingua universale della chiesa.
Cerimonia lunga, cerimonia emozionante, dove il senso del sacro cresce con il procedere degli attimi. Non è forma. La sostanza si dipana, scende dall’altare sopraelevato e coglie i fedeli, li avvolge, li accarezza, ne riempie il cuore. “Facci lieti, liberaci dal male, cambiaci il cuore di pietra in cuore di carne”.
Chi fosse tornato in quel luogo, la notte di ieri, dopo la chiusura delle porte, dopo la partenza dei monaci, dopo lo sciogliersi di una comunità ancora incredula, avrebbe udito anche altro.
Non più i lamenti di chi il monastero e la chiesa costruì nel Novecento e ne vide più tardi l’abbandono, non più i gemiti di quanti invano cercarono di tenere fede ad una idea, ma il silenzio pieno di voci della letizia di un Lotario immaginario, di una Imelda immaginaria, di sbandati e di irregolari che, in quella landa, vicina al fiume, espiarono pene e conquistarono dignità e senso del vivere, inchinandosi, ma non proni, al padre Benedetto, lavorando e pregando, pregando e lavorando.
Quando la leggenda si fa storia e la storia si fa cronaca… perché le radici profonde non gelano mai.
Foto di Giovanni Sagripanti
Testo : Terra di Marca