Questa mattina, nella Sala Regia del
Palazzo Apostolico, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i
partecipanti al Convegno promosso dalla Congregazione per il Clero in
occasione del 50° anniversario dei Decreti Conciliari Optatam totius e Presbyterorum ordinis (Pontificia Università Urbaniana, 19-20 novembre 2015).
Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti all’incontro:
Discorso del Santo Padre
Signori Cardinali,
cari fratelli Vescovi e sacerdoti,
fratelli e sorelle,
rivolgo a ciascuno un cordiale saluto ed esprimo un sincero
ringraziamento a Lei, Cardinale Stella, e alla Congregazione per il
Clero, che mi hanno invitato a partecipare a questo Convegno, a
cinquant’anni dalla promulgazione dei Decreti conciliari Optatam totius e Presbyterorum ordinis.
Mi scuso di aver cambiato il primo progetto, che era che venissi io da
voi, ma avete visto che il tempo non c’era e anche qui sono arrivato in
ritardo!
Non si tratta di una “rievocazione storica”.
Questi due
Decreti sono un seme, che il Concilio ha gettato
nel campo della vita
della Chiesa; nel corso di questi cinque decenni essi sono cresciuti,
sono diventati una pianta rigogliosa, certamente con qualche foglia
secca, ma soprattutto con tanti fiori e frutti che abbelliscono la
Chiesa di oggi. Ripercorrendo il cammino compiuto, questo Convegno ha
mostrato tali frutti e ha costituito una opportuna riflessione
ecclesiale sul lavoro che resta da fare in questo ambito così vitale per
la Chiesa.
Ancora resta lavoro da fare!
Optatam totius e Presbyterorum ordinis
sono stati ricordati insieme, come le due metà di una realtà unica: la
formazione dei sacerdoti, che distinguiamo in iniziale e permanente, ma
che costituisce per essi un’unica esperienza di discepolato. Non a caso,
Papa Benedetto, nel gennaio 2013 (Motu proprio Ministrorum institutio)
ha dato una forma concreta, giuridica, a questa realtà, attribuendo
alla Congregazione per il Clero anche la competenza sui seminari.
In
questo modo lo stesso Dicastero può iniziare a occuparsi della vita e
del ministero dei presbiteri sin dal momento dell’ingresso in seminario,
lavorando perché le vocazioni siano promosse e curate, e possano
sbocciare nella vita di santi preti. Il cammino di santità di un prete
inizia in seminario!
Dal momento che la vocazione al sacerdozio è
un dono che Dio fa ad alcuni per il bene di tutti, vorrei condividere
con voi alcuni pensieri, proprio a partire dal rapporto tra i preti e le
altre persone, seguendo il n. 3 di Presbyterorum ordinis, nel
quale si trova come un piccolo compendio di teologia del sacerdozio,
tratto dalla Lettera agli Ebrei: «I presbiteri sono stati presi fra gli
uomini e costituiti in favore degli uomini stessi nelle cose che si
riferiscono a Dio, per offrire doni e sacrifici in remissione dei
peccati, vivono quindi in mezzo agli altri uomini come fratelli in mezzo
ai fratelli».
Consideriamo questi tre momenti: “presi fra gli uomini”, “costituiti in favore degli uomini”, presenti “in mezzo agli altri uomini”.
Il sacerdote è un uomo che nasce in un certo contesto umano;
lì apprende i primi valori, assorbe la spiritualità del popolo, si
abitua alle relazioni. Anche i preti hanno una storia, non sono “funghi”
che spuntano improvvisamente in Cattedrale nel giorno della loro
ordinazione.
È importante che i formatori e i preti stessi ricordino
questo e sappiano tenere conto di tale storia personale lungo il cammino
della formazione. Nel giorno dell’ordinazione dico sempre ai sacerdoti,
ai neo-sacerdoti: ricordatevi da dove siete stati presi, dal gregge,
non dimenticatevi della vostra mamma e della vostra nonna!
Questo lo
diceva Paolo a Timoteo, e lo dico anch’io oggi. Questo vuol dire che non
si può fare il prete credendo che uno è stato formato in laboratorio,
no; incomincia in famiglia con la “tradizione” della fede e con tutta
l’esperienza della famiglia.
Occorre che essa sia personalizzata, perché
è la persona concreta ad essere chiamata al discepolato e al
sacerdozio, tenendo in ogni caso conto che è solo Cristo il Maestro da
seguire e a cui configurarsi.
Mi piace in questo senso ricordare
quel fondamentale “centro di pastorale vocazionale” che è la famiglia,
chiesa domestica e primo e fondamentale luogo di formazione umana, dove
può germinare nei giovani il desiderio di una vita concepita come
cammino vocazionale, da percorrere con impegno e generosità.
In
famiglia e in tutti gli altri contesti comunitari – scuola, parrocchia,
associazioni, gruppi di amici – impariamo a stare in relazione con
persone concrete, ci facciamo modellare dal rapporto con loro, e
diventiamo ciò che siamo anche grazie a loro.
Un buon prete,
dunque, è prima di tutto un uomo con la sua propria umanità, che conosce
la propria storia, con le sue ricchezze e le sue ferite, e che ha
imparato a fare pace con essa, raggiungendo la serenità di fondo,
propria di un discepolo del Signore.
La formazione umana è quindi una
necessità per i preti, perché imparino a non farsi dominare dai loro
limiti, ma piuttosto a mettere a frutto i loro talenti.
Un prete
che sia un uomo pacificato saprà diffondere serenità intorno a sé, anche
nei momenti faticosi, trasmettendo la bellezza del rapporto col
Signore.
Non è normale invece che un prete sia spesso triste, nervoso o
duro di carattere; non va bene e non fa bene, né al prete, né al suo
popolo.
Ma se tu hai una malattia, sei nevrotico, vai dal medico!
Dal
medico spirituale e dal medico clinico: ti daranno pastiglie che ti
faranno bene, ambedue!
Ma per favore che i fedeli non paghino la nevrosi
dei preti! Non bastonare i fedeli; vicinanza di cuore con loro.
Noi sacerdoti siamo apostoli della gioia, annunciamo il Vangelo, cioè la
“buona notizia” per eccellenza; non siamo certo noi a dare forza al
Vangelo – alcuni lo credono -, ma possiamo favorire o ostacolare
l’incontro tra il Vangelo e le persone.
La nostra umanità è il “vaso di
creta” in cui custodiamo il tesoro di Dio, un vaso di cui dobbiamo avere
cura, per trasmettere bene il suo prezioso contenuto.
Un prete
non può perdere le sue radici, resta sempre un uomo del popolo e della
cultura che lo hanno generato; le nostre radici ci aiutano a ricordare
chi siamo e dove Cristo ci ha chiamati.
Noi sacerdoti non caliamo
dall’alto, ma siamo chiamati, chiamati da Dio, che ci prende “fra gli
uomini”, per costituirci “in favore degli uomini”. Mi permetto un
aneddoto. In diocesi, anni fa... Non in diocesi, no, nella Compagnia
c’era un prete bravo, bravo, giovane, due anni di prete. E’ entrato in
confusione, ha parlato col padre spirituale, con i suoi superiori, con i
medici e ha detto: “Io me ne vado, non ne posso più, me ne vado”. E
pensando a queste cose - io conoscevo la mamma, gente umile - gli ho
detto: “Perché non vai dalla tua mamma e le parli di questo?”. E’
andato, ha passato tutta la giornata con la mamma, è tornato cambiato.
Gli ha mamma gli dato due “schiaffi” spirituali, gli ha detto tre o
quattro verità, lo ha messo a posto, ed è andato avanti. Perché? Perché è
andato alla radice. Per questo è importante non togliere la radice da
dove veniamo.
In seminario devi fare la preghiera mentale…
Sì, certo,
questo si deve fare, imparare…
Ma prima di tutto prega come ti ha
insegnato tua mamma, e poi vai avanti.
Ma sempre la radice è lì, la
radice della famiglia, come hai imparato a pregare da bambino, anche con
le stesse parole, incomincia a pregare così.
Poi andrai avanti nella
preghiera.
Ecco il secondo passaggio: “in favore degli uomini”.
Qui c’è un punto fondamentale della vita e del ministero dei presbiteri.
Rispondendo alla vocazione di Dio, si diventa preti per servire i fratelli e le sorelle.
Le immagini di Cristo che prendiamo come riferimento per il ministero
dei preti sono chiare: Egli è il “Sommo Sacerdote”, allo stesso modo
vicino a Dio e vicino agli uomini; è il “Servo”, che lava i piedi e si
fa prossimo ai più deboli; è il “Buon Pastore”, che sempre ha come fine
la cura del gregge.
Sono le tre immagini a cui dobbiamo guardare,
pensando al ministero dei preti, inviati a servire gli uomini, a far
loro giungere la misericordia di Dio, ad annunciare la sua Parola di
vita.
Non siamo sacerdoti per noi stessi e la nostra santificazione è
strettamente legata a quella del nostro popolo, la nostra unzione alla
sua unzione: tu sei unto per il tuo popolo. Sapere e ricordare di essere
“costituiti per il popolo” -popolo santo, popolo di Dio -, aiuta i
preti a non pensare a sé, ad essere autorevoli e non autoritari, fermi
ma non duri, gioiosi ma non superficiali, insomma, pastori, non
funzionari. Oggi, in entrambe le Letture della Messa si vede chiaramente
la capacità di gioire che ha il popolo, quando viene ripristinato e
purificato il tempio, e invece l’incapacità di gioia che hanno i capi
dei sacerdoti e gli scribi davanti alla cacciata dei mercanti dal tempio
da parte di Gesù.
Un prete deve imparare a gioire, non deve mai
perdere, meglio così, la capacita di gioia: se la perde c’è qualcosa che
non va.
E vi dico sinceramente, io ho paura a irrigidire, ho paura.
Ai
preti rigidi… Lontano! Ti mordono! E mi viene alla mente quella
espressione di sant’Ambrogio, secolo IV: “Dove c’è la misericordia c’è
lo spirito del Signore, dove c’è la rigidità ci sono soltanto i suoi
ministri”. Il ministro senza il Signore diventa rigido, e questo è un
pericolo per il popolo di Dio. Pastori, non funzionari.
Il popolo
di Dio e l’umanità intera sono destinatari della missione dei
sacerdoti, a cui tende tutta l’opera della formazione.
La formazione
umana, quella intellettuale e quella spirituale confluiscono
naturalmente in quella pastorale, alla quale forniscono strumenti e
virtù e disposizioni personali.
Quando tutto questo si armonizza e si
amalgama con un genuino zelo missionario, lungo il cammino di una vita
intera, il prete può adempiere alla missione affidata da Cristo alla sua
Chiesa.
Infine, ciò che dal popolo è nato, col popolo deve rimanere; il prete è sempre “in mezzo agli altri uomini”,
non è un professionista della pastorale o dell’evangelizzazione, che
arriva e fa ciò che deve – magari bene, ma come fosse un mestiere – e
poi se ne va a vivere una vita separata. Si diventa preti per stare in
mezzo alla gente: la vicinanza. E mi permetto, fratelli vescovi, anche
la nostra vicinanza di vescovi con i nostri preti. Questo vale anche per
noi! Quante volte sentiamo le lamentele dei preti: “Mah, ho chiamato il
vescovo perché ho un problema… Il segretario, la segretaria, mi ha
detto che è molto occupato, che è in giro, che non può ricevermi prima
di tre mesi…”. Due cose.
La prima. Un vescovo sempre è occupato, grazie a
Dio, ma se tu vescovo ricevi una chiamata di un prete e non puoi
riceverlo perché hai tanto lavoro, almeno prendi il telefono e chiamalo e
digli: “E’ urgente? non è urgente? quando, vieni quel giorno…”, così si
sente vicino. Ci sono vescovi che sembrano allontanarsi dai preti…
Vicinanza, almeno una telefonata! E questo è amore di padre, fraternità.
E l’altra cosa. “No, ho una conferenza in tale città e poi devo fare un
viaggio in America, e poi…”. Ma, senti, il decreto di residenza di
Trento ancora è vigente! E se tu non te la senti di rimanere in diocesi,
dimettiti, e gira il mondo facendo un altro apostolato molto buono.
Ma
se tu sei vescovo di quella diocesi, residenza.
Queste due cose,
vicinanza residenza. Ma questo è per noi vescovi! Si diventa preti per
stare in mezzo alla gente.
Il bene che i preti possono fare nasce
soprattutto dalla loro vicinanza e da un tenero amore per le persone.
Non sono filantropi o funzionari, i preti sono padri e fratelli. La
paternità di un sacerdote fa tanto bene.
Vicinanza, viscere di
misericordia, sguardo amorevole: far sperimentare la bellezza di una
vita vissuta secondo il Vangelo e l’amore di Dio che si fa concreto
anche attraverso i suoi ministri. Dio che non rifiuta mai. E qui penso
al confessionale. Sempre si possono trovare strade per dare
l’assoluzione. Accogliere bene. Ma alcune volte non si può assolvere. Ci
sono preti che dicono: “No, da questo non ti posso assolvere, vattene
via”. Questa non è la strada. Se tu non puoi dare l’assoluzione, spiega e
dì: “Dio ti ama tanto, Dio ti vuole bene. Per arrivare a Dio ci sono
tante vie. Io non ti posso dare l’assoluzione, ti do la benedizione. Ma
torna, torna sempre qui, che ogni volta che tu torni ti darò la
benedizione come segno che Dio ti ama”. E quell’uomo o quella donna se
ne va pieno di gioia perché ha trovato l’icona del Padre, che non
rifiuta mai; in una maniera o nell’altra lo ha abbracciato.
Un
buon esame di coscienza per un prete è anche questo; se il Signore
tornasse oggi, dove mi troverebbe? «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche
il tuo cuore» (Mt 6,21). E il mio cuore dov’è? In mezzo alla
gente, pregando con e per la gente, coinvolto con le loro gioie e
sofferenze, o piuttosto in mezzo alle cose del mondo, agli affari
terreni, ai miei “spazi” privati? Un prete non può avere uno spazio
privato, perché è sempre o col Signore o col popolo. Io penso a quei
preti che ho conosciuto nella mia città, quando non c’era la segreteria
telefonica, ma dormivano con il telefono sul comodino, e a qualunque ora
chiamasse la gente, loro si alzavano a dare l’unzione: non moriva
nessuno senza i sacramenti! Neppure nel riposo avevano uno spazio
privato. Questo è zelo apostolico. La risposta a questa domanda: il mio
cuore dov’è?, può aiutare ogni prete a orientare la sua vita e il suo
ministero verso il Signore.
Il Concilio ha lasciato alla Chiesa
“perle preziose”. Come il mercante del Vangelo di Matteo (13,45), oggi
andiamo alla ricerca di esse, per trarre nuovo slancio e nuovi strumenti
per la missione che il Signore ci affida.
Una cosa che vorrei
aggiungere al testo – scusatemi! – è il discernimento vocazionale,
l’ammissione al seminario. Cercare la salute di quel ragazzo, salute
spirituale, salute materiale, fisica, psichica. Una volta, appena
nominato maestro dei novizi, anno ’72, sono andato a portare alla
psicologa gli esiti del test di personalità, un test semplice che si
faceva come uno degli elementi del discernimento. Era una brava donna, e
anche brava medico. Mi diceva: “Questo ha questo problema ma può andare
se va così…”. Era anche una buona cristiana, ma in alcuni casi era
inflessibile: “Questo non può” – “Ma dottoressa, è tanto buono questo
ragazzo” - “Adesso è buono, ma sappia che ci sono giovani che sanno
inconsciamente, non ne sono consapevoli, ma sentono inconsciamente di
essere psichicamente ammalati e cercano per la loro vita strutture forti
che li difendano, così da poter andare avanti. E vanno bene, fino al
momento in cui si sentono bene stabiliti e lì incominciano i problemi” –
“Mi sembra un po’ strano…”. E la risposta non la dimentico mai, la
stessa del Signore a Ezechiele: “Padre, Lei non ha mai pensato perché ci
sono tanti poliziotti torturatori? Entrano giovani, sembrano sani ma
quando si sentono sicuri, la malattia incomincia ad uscire. Quelle sono
le istituzioni forti che cercano questi ammalati incoscienti: la
polizia, l’esercito, il clero… E poi tante malattie che tutti noi
conosciamo che vengono fuori”. E’ curioso. Quando mi accorgo che un
giovane è troppo rigido, è troppo fondamentalista, io non ho fiducia;
dietro c’è qualcosa che lui stesso non sa. Ma quando si sente sicuro…
Ezechiele 16, non ricordo il versetto, ma è quando il Signore dice al
suo popolo tutto quello che ha fatto per lui: l’ha trovato appena nato, e
poi l’ha vestito, l’ha sposato… “E poi, quando tu ti sei sentita
sicura, ti sei prostituita”. E’ una regola, una regola di vita. Occhi
aperti sulla missione nei seminari. Occhi aperti.
Confido che il
frutto dei lavori di questo Convegno – con tanti autorevoli relatori,
provenienti da regioni e culture diverse – potrà essere offerto alla
Chiesa come utile attualizzazione degli insegnamenti del Concilio,
portando un contributo alla formazione dei sacerdoti, quelli che ci sono
e quelli che il Signore vorrà donarci, perché, configurati sempre più a
Lui, siano buoni preti secondo il cuore del Signore, non funzionari! E
grazie della pazienza.
Fonte : Sala Stampa Vaticana