PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI DELLA CURIA ROMANA
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Sala Clementina
Lunedì, 21 dicembre 2015
Lunedì, 21 dicembre 2015
Cari fratelli e sorelle,
vi chiedo scusa di non parlare in piedi, ma da alcuni giorni sono
sotto l’influsso dell’influenza e non mi sento molto forte. Con il
vostro permesso, vi parlo seduto.
Sono lieto di rivolgervi gli auguri più cordiali di un santo Natale e
felice Anno Nuovo, che si estendono anche a tutti i collaboratori, ai
Rappresentanti Pontifici, e particolarmente a coloro che, durante l’anno
scorso, hanno terminato il loro servizio per raggiunti limiti di età.
Ricordiamo anche le persone che sono state chiamate davanti a Dio. A
tutti voi e ai vostri familiari vanno il mio pensiero e la mia
gratitudine.
Nel mio primo incontro con voi, nel 2013, ho voluto sottolineare due aspetti importanti e inseparabili del lavoro curiale: la professionalità e il servizio, indicando come modello da imitare la figura di san Giuseppe. Invece l’anno scorso,
per prepararci al sacramento della Riconciliazione, abbiamo affrontato
alcune tentazioni e “malattie” – il “catalogo delle malattie curiali”;
oggi invece dovrei parlare degli “antibiotici curiali” – che potrebbero
colpire ogni cristiano, ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia e
movimento ecclesiale.
Malattie che richiedono prevenzione, vigilanza,
cura e, purtroppo, in alcuni casi, interventi dolorosi e prolungati.
Alcune di tali malattie si sono manifestate nel corso di questo anno,
causando non poco dolore a tutto il corpo e ferendo tante anime, anche
con lo scandalo.
Sembra doveroso affermare che ciò è stato – e lo sarà sempre –
oggetto di sincera riflessione e decisivi provvedimenti. La riforma
andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché Ecclesia semper reformanda.
Tuttavia, le malattie e perfino gli scandali non potranno nascondere
l’efficienza dei servizi, che la Curia Romana con fatica, con
responsabilità, con impegno e dedizione rende al Papa e a tutta la
Chiesa, e questa è una vera consolazione.
Insegnava sant’Ignazio che «è
proprio dello spirito cattivo rimordere, rattristare, porre difficoltà e
turbare con false ragioni, per impedire di andare avanti; invece è proprio dello spirito buono dare coraggio ed energie, dare consolazioni e lacrime, ispirazioni e serenità, diminuendo e rimuovendo ogni difficoltà, per andare avanti nella via del bene» [1].
Sarebbe grande ingiustizia non esprimere una sentita gratitudine e un
doveroso incoraggiamento a tutte le persone sane e oneste che lavorano
con dedizione, devozione, fedeltà e professionalità, offrendo alla
Chiesa e al Successore di Pietro il conforto delle loro solidarietà e
obbedienza, nonché delle loro generose preghiere.
Per di più, le resistenze, le fatiche e le cadute delle persone e dei
ministri rappresentano anche delle lezioni e delle occasioni di
crescita, e mai di scoraggiamento.
Sono opportunità per tornare all’essenziale, che significa fare i conti con la consapevolezza che abbiamo di noi stessi, di Dio, del prossimo, del sensus Ecclesiae e del sensus fidei.
Di questo tornare all’essenziale vorrei parlarvi oggi, mentre
siamo all’inizio del pellegrinaggio dell’Anno Santo della Misericordia,
aperto dalla Chiesa pochi giorni fa, e che rappresenta per essa e per
tutti noi un forte richiamo alla gratitudine, alla conversione, al rinnovamento, alla penitenza e alla riconciliazione.
In realtà, il Natale è la festa dell’infinita Misericordia di Dio.
Dice sant’Agostino d’Ippona: «Poteva esserci misericordia verso di noi
infelici maggiore di quella che indusse il Creatore del cielo a scendere
dal cielo e il Creatore della terra a rivestirsi di un corpo mortale?
Quella stessa misericordia indusse il Signore del mondo a rivestirsi
della natura di servo, di modo che pur essendo pane avesse fame, pur
essendo la sazietà piena avesse sete, pur essendo la potenza divenisse
debole, pur essendo la salvezza venisse ferito, pur essendo vita potesse
morire.
E tutto questo per saziare la nostra fame, alleviare la nostra
arsura, rafforzare la nostra debolezza, cancellare la nostra iniquità,
accendere la nostra carità» [2].
Quindi, nel contesto di questo Anno della Misericordia e della
preparazione al Santo Natale, ormai alle porte, vorrei presentarvi un
sussidio pratico per poter vivere fruttuosamente questo tempo di grazia.
Si tratta di un non esaustivo “catalogo delle virtù necessarie”
per chi presta servizio in Curia e per tutti coloro che vogliono rendere
feconda la loro consacrazione o il loro servizio alla Chiesa.
Invito i Capi dei Dicasteri e i Superiori ad approfondirlo, ad
arricchirlo e a completarlo. È un elenco che parte proprio da un’analisi
acrostica della parola “misericordia” – padre Ricci, in Cina, faceva questo – affinché sia essa la nostra guida e il nostro faro.
1. Missionarietà e pastoralità.
La missionarietà
è ciò che rende, e mostra, la curia fertile e feconda; è la prova
dell’efficacia, dell’efficienza e dell’autenticità del nostro operare.
La fede è un dono, ma la misura della nostra fede si prova anche da
quanto siamo capaci di comunicarla [3].
Ogni battezzato è missionario della Buona Novella innanzitutto con la
sua vita, con il suo lavoro e con la sua gioiosa e convinta
testimonianza. La pastoralità sana è una virtù indispensabile
specialmente per ogni sacerdote. È l’impegno quotidiano di seguire il
Buon Pastore, che si prende cura delle sue pecorelle e dà la sua vita
per salvare la vita degli altri. È la misura della nostra attività
curiale e sacerdotale. Senza queste due ali non potremo mai volare e
nemmeno raggiungere la beatitudine del “servo fedele” (cfr Mt 25,14-30).
2. Idoneità e sagacia.
L’idoneità
richiede lo sforzo personale di acquistare i requisiti necessari e
richiesti per esercitare al meglio i propri compiti e attività, con
l’intelletto e l’intuizione. Essa è contro le raccomandazioni e le
tangenti. La sagacia è la prontezza di mente per comprendere e
affrontare le situazioni con saggezza e creatività. Idoneità e sagacia
rappresentano anche la risposta umana alla grazia divina, quando ognuno
di noi segue quel famoso detto: “fare tutto come se Dio non esistesse e,
in seguito, lasciare tutto a Dio come se io non esistessi”.
È il
comportamento del discepolo che si rivolge al Signore tutti i giorni con
queste parole della bellissima Preghiera Universale attribuita a Papa
Clemente XI: «Guidami con la tua sapienza, reggimi con la tua giustizia,
incoraggiami con la tua bontà, proteggimi con la tua potenza. Ti offro,
o Signore: i pensieri, perché siano diretti a te; le parole, perché
siano di te; le azioni, perché siano secondo te; le tribolazioni, perché
siano per te» [4].
3. Spiritualità e umanità.
La spiritualità è la
colonna portante di qualsiasi servizio nella Chiesa e nella vita
cristiana. Essa è ciò che alimenta tutto il nostro operato, lo sorregge e
lo protegge dalla fragilità umana e dalle tentazioni quotidiane.
L’umanità è ciò che incarna la veridicità della nostra fede. Chi
rinuncia alla propria umanità rinuncia a tutto. L’umanità è ciò che ci
rende diversi dalle macchine e dai robot che non sentono e non si
commuovono. Quando ci risulta difficile piangere seriamente o ridere
appassionatamente - sono due segni - allora è iniziato il nostro declino
e il nostro processo di trasformazione da “uomini” a qualcos’altro.
L’umanità è il saper mostrare tenerezza e familiarità e cortesia con
tutti (cfr Fil 4,5). Spiritualità e umanità, pur essendo qualità
innate, tuttavia sono potenzialità da realizzare interamente, da
raggiungere continuamente e da dimostrare quotidianamente.
4. Esemplarità e fedeltà.
Il beato Paolo VI ricordò alla Curia - nel '63 - «la sua vocazione all’esemplarità» [5].
Esemplarità per evitare gli scandali che feriscono le anime e
minacciano la credibilità della nostra testimonianza.
Fedeltà alla
nostra consacrazione, alla nostra vocazione, ricordando sempre le parole
di Cristo: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose
importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche
in cose importanti» (Lc 16,10) e «Chi invece scandalizzerà uno
solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga
appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del
mare.
Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano
scandali, ma guai all'uomo a causa del quale viene lo scandalo!» (Mt 18,6-7).
5. Razionalità e amabilità.
La razionalità serve
per evitare gli eccessi emotivi e l’amabilità per evitare gli eccessi
della burocrazia e delle programmazioni e pianificazioni.
Sono doti
necessarie per l’equilibrio della personalità: «Il nemico - e cito
sant'Ignazio un'altra volta, scusatemi - osserva bene se un’anima è
grossolana oppure delicata; se è delicata, fa in modo di renderla
delicata fino all’eccesso, per poi maggiormente angosciarla e
confonderla» [6].
Ogni eccesso è indice di qualche squilibrio, sia l'eccesso nella razionalità, sia nell'amabilità.
6. Innocuità e determinazione.
L’innocuità che
rende cauti nel giudizio, capaci di astenerci da azioni impulsive e
affrettate. È la capacità di far emergere il meglio da noi stessi, dagli
altri e dalle situazioni agendo con attenzione e comprensione. È il
fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te (cfr Mt 7,12 e Lc
6,31).
La determinazione è l’agire con volontà risoluta, con visione
chiara e con obbedienza a Dio, e solo per la legge suprema della salus animarum (cfr CIC, can. 1725).
7. Carità e verità.
Due virtù indissolubili dell’esistenza cristiana: “fare la verità nella carità e vivere la carità nella verità” (cfr Ef 4,15) [7].
Al punto che la carità senza verità diventa ideologia del buonismo
distruttivo e la verità senza carità diventa “giudiziarismo” cieco.
8. Onestà e maturità.
L’onestà è la rettitudine,
la coerenza e l’agire con sincerità assoluta con noi stessi e con Dio.
Chi è onesto non agisce rettamente soltanto sotto lo sguardo del
sorvegliante o del superiore; l’onesto non teme di essere sorpreso,
perché non inganna mai colui che si fida di lui. L’onesto non
spadroneggia mai sulle persone o sulle cose che gli sono state affidate
da amministrare, come il «servo malvagio» (Mt 24,48).
L’onestà è
la base su cui poggiano tutte le altre qualità.
Maturità è la ricerca di
raggiungere l’armonia tra le nostre capacità fisiche, psichiche e
spirituali.
Essa è la meta e l’esito di un processo di sviluppo che non
finisce mai e che non dipende dall’età che abbiamo.
9. Rispettosità e umiltà.
La rispettosità è la
dote delle anime nobili e delicate; delle persone che cercano sempre di
dimostrare rispetto autentico agli altri, al proprio ruolo, ai superiori
e ai subordinati, alle pratiche, alle carte, al segreto e alla
riservatezza; le persone che sanno ascoltare attentamente e parlare
educatamente.
L’umiltà invece è la virtù dei santi e delle persone piene
di Dio, che più crescono nell’importanza più cresce in loro la
consapevolezza di essere nulla e di non poter fare nulla senza la grazia
di Dio (cfr Gv 15,8).
10. “Doviziosità” - io ho il vizio dei neologismi - e attenzione.
Più abbiamo fiducia in Dio e nella sua provvidenza più siamo doviziosi
di anima e più siamo aperti nel dare, sapendo che più si dà più si
riceve.
In realtà, è inutile aprire tutte le Porte Sante di tutte le
basiliche del mondo se la porta del nostro cuore è chiusa all’amore, se
le nostre mani sono chiuse al donare, se le nostre case sono chiuse
all’ospitare e se le nostre chiese sono chiuse all’accogliere.
L’attenzione è il curare i dettagli e l’offrire il meglio di noi e il
non abbassare mai la guardia sui nostri vizi e mancanze. San Vincenzo
de’ Paoli pregava così: “Signore, aiutami ad accorgermi subito: di
quelli che mi stanno accanto, di quelli che sono preoccupati e disorientati, di quelli che soffrono senza mostrarlo, di quelli che si sentono isolati senza volerlo”.
11. Impavidità e prontezza.
Essere impavido
significa non lasciarsi impaurire di fronte alle difficoltà, come
Daniele nella fossa dei leoni, come Davide di fronte a Golia; significa
agire con audacia e determinazione e senza tiepidezza «come un buon
soldato» (2 Tm 2,3-4); significa saper fare il primo passo senza
indugiare, come Abramo e come Maria. Invece la prontezza è il saper
agire con libertà e agilità senza attaccarsi alle cose materiali che
passano.
Dice il salmo: «Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate
il cuore» (Sal 61,11).
Essere pronto vuol dire essere sempre in
cammino, senza mai farsi appesantire accumulando cose inutili e
chiudendosi nei propri progetti, e senza farsi dominare dall’ambizione.
12. E finalmente affidabilità e sobrietà.
Affidabile è colui che sa mantenere gli impegni con serietà e
attendibilità quando è osservato ma soprattutto quando si trova solo; è
colui che irradia intorno a sé un senso di tranquillità perché non
tradisce mai la fiducia che gli è stata accordata. La sobrietà – ultima
virtù di questo elenco non per importanza – è la capacità di rinunciare
al superfluo e di resistere alla logica consumistica dominante.
La
sobrietà è prudenza, semplicità, essenzialità, equilibrio e temperanza.
La sobrietà è guardare il mondo con gli occhi di Dio e con lo sguardo
dei poveri e dalla parte dei poveri.
La sobrietà è uno stile di vita [8]
che indica il primato dell’altro come principio gerarchico ed esprime
l’esistenza come premura e servizio verso gli altri.
Chi è sobrio è una
persona coerente ed essenziale in tutto, perché sa ridurre, recuperare,
riciclare, riparare e vivere con il senso della misura.
Cari fratelli, la misericordia non è un sentimento passeggero, ma è la sintesi della
Buona Notizia, è la scelta di chi vuole avere i sentimenti del Cuore di
Gesù [9], di chi vuol seguire seriamente il Signore che ci chiede: «Siate misericordiosi come il Padre vostro» (Lc 6,36; cfr Mt
5,48).
Afferma padre Ermes Ronchi: «Misericordia: scandalo per la
giustizia, follia per l’intelligenza, consolazione per noi debitori.
Il
debito di esistere, il debito di essere amati si paga solo con la
misericordia».
Dunque, sia la misericordia a guidare i nostri passi, a ispirare le
nostre riforme, a illuminare le nostre decisioni.
Sia essa la colonna
portante del nostro operare.
Sia essa a insegnarci quando
dobbiamo andare avanti e quando dobbiamo compiere un passo indietro.
Sia
essa a farci leggere la piccolezza delle nostre azioni nel grande
progetto di salvezza di Dio e nella maestosità e misteriosità della sua
opera.
Per aiutarci a capire questo, lasciamoci incantare dalla preghiera
stupenda che viene comunemente attribuita al Beato Oscar Arnulfo Romero,
ma che fu pronunciata per la prima volta dal Cardinale John Dearden:
Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano.
Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni.
Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte
di quella meravigliosa impresa che è l’opera di Dio.
Niente di ciò che noi facciamo è completo.
Che è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi.
Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire.
Nessuna preghiera esprime completamente la fede.
Nessun credo porta la perfezione.
Nessuna visita pastorale porta con sé tutte le soluzioni.
Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa.
Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza.
Di questo si tratta:
noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.
Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.
Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.
Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.
Non possiamo fare tutto,
però dà un senso di liberazione l’iniziarlo.
Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene.
Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.
Una opportunità perché la grazia di Dio entri
e faccia il resto.
Può darsi che mai vedremo il suo compimento,
ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.
Siamo manovali, non capomastri,
servitori, non messia.
Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.
Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni.
Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte
di quella meravigliosa impresa che è l’opera di Dio.
Niente di ciò che noi facciamo è completo.
Che è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi.
Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire.
Nessuna preghiera esprime completamente la fede.
Nessun credo porta la perfezione.
Nessuna visita pastorale porta con sé tutte le soluzioni.
Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa.
Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza.
Di questo si tratta:
noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.
Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.
Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.
Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.
Non possiamo fare tutto,
però dà un senso di liberazione l’iniziarlo.
Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene.
Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.
Una opportunità perché la grazia di Dio entri
e faccia il resto.
Può darsi che mai vedremo il suo compimento,
ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.
Siamo manovali, non capomastri,
servitori, non messia.
Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.
E con questi pensieri, con questi sentimenti, vi auguro un buon e santo Natale, e vi chiedo di pregare per me.
Grazie.
[1]
Esercizi Spirituali, 315.
[4] Missale Romanum, ed. 2002.
[5] Discorso alla Curia Romana, 21 settembre 1963: AAS 55 (1963), 793-800.
[6] Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali 349.
[7] «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera […] È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 29 giugno 2009, 1: AAS 101 [2009], 641). Perciò occorre «coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della “veritas in caritate” (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della “caritas in veritate”. La verità va cercata, trovata ed espressa nell’“economia” della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità» (ibid., 2).
[8] Uno stile di vita improntato alla sobrietà restituisce all’uomo «quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l’essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 37); cfr AA.VV., Nuovi stili di vita nel tempo della globalizzazione, Fondaz. Apostolicam actuositatem, Roma 2002.
[9] Giovanni Paolo II, Angelus del 9 luglio 1989: «L’espressione “Cuore di Gesù” richiama subito alla mente l’umanità di Cristo, e ne sottolinea la ricchezza dei sentimenti, la compassione verso gli infermi; la predilezione per i poveri; la misericordia verso i peccatori; la tenerezza verso i bambini; la fortezza nella denuncia dell’ipocrisia, dell’orgoglio, della violenza; la mansuetudine di fronte agli oppositori; lo zelo per la gloria del Padre e il giubilo per i suoi disegni di grazia, misteriosi e provvidenti… richiama poi la tristezza di Cristo per il tradimento di Giuda, lo sconforto per la solitudine, l’angoscia dinanzi alla morte, l’abbandono filiale e obbediente nelle mani del Padre. E dice soprattutto l’amore che sgorga inarrestabile dal suo intimo: amore infinito verso il Padre e amore senza limiti verso l’uomo».
[2] Serm. 207, 1: PL 38, 1042.
[3]
«La missionarietà non è solo una questione di territori geografici, ma
di popoli, di culture e di singole persone, proprio perché i “confini"
della fede non attraversano solo luoghi e tradizioni umane, ma il cuore
di ciascun uomo e di ciascuna donna, Il Concilio Vaticano II ha
sottolineato in modo speciale come il compito missionario, il compito di
allargare i confini della fede, sia proprio di ogni battezzato e di
tutte le comunità cristiane» (Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2013, 2).[4] Missale Romanum, ed. 2002.
[5] Discorso alla Curia Romana, 21 settembre 1963: AAS 55 (1963), 793-800.
[6] Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali 349.
[7] «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera […] È una forza che ha la sua origine in Dio, Amore eterno e Verità assoluta» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 29 giugno 2009, 1: AAS 101 [2009], 641). Perciò occorre «coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della “veritas in caritate” (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della “caritas in veritate”. La verità va cercata, trovata ed espressa nell’“economia” della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità» (ibid., 2).
[8] Uno stile di vita improntato alla sobrietà restituisce all’uomo «quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l’essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 37); cfr AA.VV., Nuovi stili di vita nel tempo della globalizzazione, Fondaz. Apostolicam actuositatem, Roma 2002.
[9] Giovanni Paolo II, Angelus del 9 luglio 1989: «L’espressione “Cuore di Gesù” richiama subito alla mente l’umanità di Cristo, e ne sottolinea la ricchezza dei sentimenti, la compassione verso gli infermi; la predilezione per i poveri; la misericordia verso i peccatori; la tenerezza verso i bambini; la fortezza nella denuncia dell’ipocrisia, dell’orgoglio, della violenza; la mansuetudine di fronte agli oppositori; lo zelo per la gloria del Padre e il giubilo per i suoi disegni di grazia, misteriosi e provvidenti… richiama poi la tristezza di Cristo per il tradimento di Giuda, lo sconforto per la solitudine, l’angoscia dinanzi alla morte, l’abbandono filiale e obbediente nelle mani del Padre. E dice soprattutto l’amore che sgorga inarrestabile dal suo intimo: amore infinito verso il Padre e amore senza limiti verso l’uomo».
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