L’industria del turismo e dei pellegrinaggi è uno dei pilastri dell’economia palestinese. Tony Khashram, presidente di
un’associazione di operatori turistici in Palestina, spiega le conseguenze del blocco imposto da marzo per la chiusura delle frontiere a causa della pandemia da Covid-19.La comunità cristiana è particolarmente colpita.
Tony 
Khashram è fondatore e direttore generale di Aeolus Tours, un’agenzia di
 viaggi per il turismo da e verso i Territori palestinesi. 
L’imprenditore è anche presidente della Holy Land Incoming Tour 
Operators Association (Hlitoa), un’associazione del settore privato che 
rappresenta 50 tour operator palestinesi e contribuisce alla crescita 
dell’economia e del prodotto interno lordo palestinesi rafforzando il 
comparto turistico.
Cristiano praticante, Khashram è anche 
vice-presidente della Conferenza di San Vincenzo de Paoli e presidente 
del Coordinamento delle organizzazioni umanitarie cattoliche (Ccao) di 
Israele e Palestina che riunisce quindici grandi organismi. Lo abbiamo 
intervistato.
In
 Terra Santa il turismo e i pellegrinaggi sono fermi al palo ormai dallo
 scorso mese di marzo. Quali sono le ricadute finanziarie che si 
riscontrano in Palestina?
Alla fine di agosto le perdite del 
comparto turistico in Palestina hanno superato i 320 milioni di dollari.
 Una somma che rappresenta il salario di tutti gli attori del settore. 
Nella nostra rete, che è il più grande raggruppamento di imprese private
 nel turismo, tutte le prenotazioni sono state annullate. Ciò implica 
che tutti i fornitori di servizi, gli alberghi, i trasporti, gli 
esercizi commerciali, i ristoranti e le guide non abbiano più alcuna 
entrata da fine febbraio.
Sono cifre che riguardano la Palestina, un
 Paese di sei milioni di abitanti, per il quale il turismo è uno dei 
pilastri portanti dell’economia. La crisi che attraversiamo è 
catastrofica, la peggiore che il turismo palestinese abbia mai 
conosciuto.
Durante
 le due intifada (le rivolte palestinesi degli anni Ottanta e dei primi 
anni del Duemila – ndr) il turismo e i pellegrinaggi avevano già subito 
pesanti contraccolpi. Perché considera quella attuale come la peggiore 
crisi della vostra storia?
Perché negli anni dell’intifada il turismo
 e i pellegrinaggi non si sono mai arrestati del tutto. Nel 2000, ad 
esempio, con lo scoppio dell’intifada (a settembre – ndr) ci fu un 
crollo del 90 per cento. Ma nei mesi successivi i gruppi ripresero a 
tornare anche se in piccoli numeri. Gli operatori del settore riuscirono
 a tirare avanti. 
L’aeroporto (di Tel Aviv) era rimasto aperto e c’era sempre un traffico aereo di viaggiatori. Con la crisi presente, invece, si è assistito a un crollo totale da un giorno all’altro e ad oggi non si vede all’orizzonte alcuna ripresa.
È come se un bel giorno dicessero a tutti gli avvocati di smettere di lavorare, o ai panettieri di non infornare più il pane.
Un altro elemento inedito: l’intifada riguardava solo la Terra Santa, ma nel resto del mondo il turismo continuava e non serviva altro che riagganciarsi ad esso.
Stavolta è il mondo intero ad essersi fermato e ci vorrà molto più tempo a riprendere il ritmo, l’abitudine stessa di viaggiare.
Nel
 giugno scorso, parlando al giornale Al-Hayat lei diceva che la crisi 
colpisce il turismo in Palestina mentre attraversava un periodo di 
crescita. Quali saranno le ricadute?
Il turismo in Palestina ha conosciuto una 
crescita importante a partire dal 2017. Nel 2019 siamo giunti all’apice.
 Il settore beneficiava di importanti investimenti. Nuovi alberghi e 
case di ospitalità sono stati aperti in tutta la regione, per un totale 
di decine di migliaia di nuove camere. Molte persone hanno chiesto 
prestiti a lungo termine per investire e le banche non hanno 
lesinato.
Il sopraggiungere della crisi in questa fase è un colpo molto 
duro per gli investitori, soprattutto per coloro che hanno messo denaro 
in attività medio-piccole, come le case di ospitalità o i negozietti di 
souvenir per pellegrini, di produzione locale o importati. 
Alcuni hanno acquistato questa merce a credito. Molte famiglie hanno adibito una parte della loro casa a camere per ospiti, indebitandosi per la ristrutturazione. I pellegrinaggi sono essenziali per sostenere la presenza cristiana in Palestina e bisogna far in modo che riprendano non appena possibile.
Lei ha menzionato Betlemme. La comunità cristiana di lì ha risentito della crisi in modo particolarmente acuto?
Il 70 per cento circa dei cristiani in 
Palestina lavora nel comparto turistico, più o meno a tempo pieno. La 
maggior parte delle agenzie turistiche sono imprese familiari, così come
 gli esercizi commerciali legati ai pellegrinaggi. I miei due figli, per
 esempio, sono ormai adulti e lavorano con me nella nostra agenzia. Se i
 flussi turistici non riprendono rapidamente, se ne andranno all’estero 
alla ricerca di nuove opportunità. È quello che accadrà in molte altre 
famiglie.
Ma quel che è ancora più importante è il fatto che i cristiani
 di Palestina accolgono i pellegrini condividendone la stessa fede. Se i
 cristiani sparissero da questo ambito, i pellegrini stranieri non 
troverebbero che chiese vuote e pietre morte.
Cosa occorrerebbe fare, secondo lei, per salvare il turismo in Palestina?
Bisogna preparare un piano marketing 
complessivo per il dopo-crisi, puntando ad attirare turisti da tutto il 
mondo. E bisogna cominciare a ideare quel piano sin d’ora. Il settore 
privato non può farcela da solo. Il governo palestinese deve intervenire
 per guidare questo sforzo che mira a promuovere il Paese come 
destinazione turistica. È un ruolo che compete alle autorità pubbliche, 
al ministero del Turismo. Se non ci prepariamo per tempo, i flussi 
turistici, quando riprenderanno, saranno monopolizzati dalle agenzie 
israeliane che trarranno vantaggio dal controllo israeliano del 
territorio, dei Luoghi Santi e dei vari siti (archeologici).
Quando pensa che ci sarà la ripresa del turismo in Palestina e in che modo?
Le condizioni attuali, soprattutto dopo 
l’inizio della seconda ondata del coronavirus, indicano che la fine non è
 prossima. Il turismo non riprenderà a crescere prima del giugno 2021. 
Occorrerà attendere fino a settembre, nel migliore dei casi, perché il 
comparto in Palestina recuperi il 25 per cento della forza che aveva nel
 2019. Basterebbe a salvarlo, ma non si può che aspettare. Siamo in un 
momento difficile, però resto ottimista. Il turismo non può morire.
In cifre
Le entrate per servizi turistici in 
Palestina rappresentano il 40 per cento circa dei bonifici bancari 
provenienti dall’estero. Il comparto produce un fatturato di circa un 
miliardo di dollari e dà lavoro direttamente a 32 mila palestinesi. I 
servizi di trasporto, ospitalità, ristorazione e di guida turistica sono
 fonte di sostentamento per 10.300 famiglie.
Nel 2019 oltre 3 milioni e mezzo di 
turisti hanno visitato la Palestina e gli alberghi hanno raggiunto un 
tasso di occupazione delle camere del 70 per cento. Una simile crescita 
ha incoraggiato nuovi investimenti. Rispetto al 2018 sono state 
realizzate 155 mila nuove camere. Il crollo a picco degli arrivi 
turistici a causa della pandemia ha provocato perdite dirette per 145 
milioni di dollari nel settore alberghiero e di 7,5 milioni nella 
ristorazione, oltre a 85 milioni di debiti per i proprietari di bus 
turistici. Complessivamente le perdite del comparto turismo in Palestina
 hanno superato i 320 milioni di dollari.
https://www.terrasanta.net/2020/10/palestina-senza-pellegrini-una-catastrofe-economica/
Fonte: Centro Studi Federici QUI 
