venerdì 30 settembre 2011

Petriolo : Sabato 1 ottobre Santo Rosario cantato



Petriolo, provincia di Macerata, Arcidiocesi di Fermo.
Sabato 1 ottobre ore 21 : Santuario della Madonna della Misericordia.
SANTO ROSARIO INTERCALATO CON CANTI MARIANI, CANTO DEL SALVE REGINA E DELLE LITANIE LAURETANE.
Soprano solista : Anna Maria Mazza, all'Organo : Andrea Carradori
Cantori della Schola Cantorum " Giuseppe Bezzi" della Basilica di San Nicola, Tolentino
Organizzato dalla Parrocchia di San Marco e dalla Confraternita del Santissimo Sacramento .
Al termine del Sacro Rito visita allo splendido Museo dei Legni Processionali Mons.Manfroni http://www.confraternitamuseopetriolo.com/storia.html
Foto :
- Il venerato simulacro della Madonna della Misericordia, venerato nell'omonimo Santuario di Petriolo.
- Particolare della stautua lignea.
- Altare laterale, la Madonna della Vittoria. Attr. Alessandro Ricci, pittore fermano(1750/1827)
Il dipinto è una pala di altare, centinata. Al centro, è assisa la Madonna del Rosario in manto verde e veste rossa, col Figlio ignudo, sorretto sul ginocchio sinistro. Attorno stanno bandiere con la mezzaluna; in alto, figura una tenda, tenuta aperta da tre putti alati, con frangia di pendagli a forma di scudo coi 15 Misteri. In primo piano sono dipinti 4 prigionieri turchi, legati con catene.
Dipinta In ricordo della battaglia di Lepanto (1571), vinta dalle armi cristiane contro i Turchi, la Madonna del Rosario fu detta anche “Madonna della Vittoria”. Al dipinto compete questo titolo che viene evidenziato dalle bandiere con la mezzaluna, esposte come trofei, ed i prigionieri incatenati ai piedi del trono.
Gli inventari del 1765 e 1771 riferiscono che nella controfacciata era appeso un quadro vecchio ed antico della Madonna del Rosario senza cornice e che nella Cappella del Rosario la pala d’altare era costituita da una tela  fatta de novo nel 1765, ove era raffigurata la Madonna del Rosario tra S. Domenico e S. Pietro Martire, e che la Confraternita del Rosario fu istituita a Petriolo nel 1621, con assegnazione di detto altare. La figura della Madonna  e del bambino, unitamente alla rappresentazione dei 15 Misteri nei pendagli del tendaggio rimandano alla scuola di pittura fermana del sec. XVIII, in particolar modo ad Alessandro Ricci, con evidenti adattamenti tra vecchio e nuovo, come fece con analogo soggetto per la nuova Collegiata di S. Vittoria in Matenano. Originale le figure dei prigionieri che interpretano l’espressione biblica del salmista: Porrò i tuoi nemici come sgabello sotto i tuoi piedi.      




Al termine del Sacro Rito sarà eseguito il bellissimo Inno per l'Incoronazione della Madonna della Misericordia di Petriolo composto nell'Agosto 1946 dal Maestro Giovanni Ginobili.
Il Maestro Giovanni Ginobili (Petriolo 1892 – Macerata 1973), nonostante una settantina di pubblicazioni stampate a spese proprie pur di tramandarci il dialetto, usi, costumi e leggende, è ormai caduto completamente nel dimenticatoio di una Provincia molto attenta al recupero di personaggi, sovente usati per autocelebrazioni.
Ecco la partitura dell'Inno, che può essere usato come tenero canto mariano.


Don Luigi Parrone. Il ricordo di un autentico prete romano


Tu es Sacérdos in aetérnum
Don Luigi Parrone
nato a Roma, il 16 agosto 1960
ordinato Sacerdote dal Beato Giovanni Paolo II
il 13 maggio 2001 in San Pietro in Vaticano per la Diocesi di ROMA

Il Signore ha donato a questo Sacerdote anche una particolare fedeltà alla Santa Tradizione.

Nel 2007 era Vicario Parrocchiale in Santa Maria del Carmine e San Giuseppe al Casaletto, a Roma.
Fu trasferito nella Parrocchia di S. Romano (Tiburtino) dove svolse in modo ammirevole il suo Apostolato sacerdotale aiutando i poveri, avvicinando le persone che non frequentavano la chiesa.

E' morto il 9 agosto 2011, vigilia di S. Lorenzo a Collevalenza dove si trovava per ordine del Card.Vicario di Roma Agostino Vallini.
Riposa nella Cappella del Preziosissimo Sangue al Campo Verano, Roma

Questo l'articolo che il sito http://www.presbiterioromano.org/2011/08/11/il-funerale-di-don-luigi-parrone/ ha scritto in occasione del funerale di don Luigi.

" Oggi alle 9.30 ci siamo ritrovati nella Cripta del Santuario della "Divina Misericordia" di Collevalenza per celebrare le esequie del nostro confratello d. Luigi.
La S. Messa è stata presieduta dal Cardinale Vicario e hanno concelebrato, oltre a diversi sacerdoti del Santuario e delle parrocchie limitrofe, 18 sacerdoti del clero romano.
Nell'omelia il Cardinale si è soffermato sul Mistero della morte, fondamento della nostra Fede, e sulla vita eterna. Ha ricordato la passione d. Luigi ad "essere" prete e la sua "romanicità". Ha infine invitato a pregare per d. Luigi e per nuove vocazioni al Sacerdozio.
La salma è stata poi riportata a Roma per essere sepolta al Cimitero Verano nel Campo del Clero Romano.
La presenza di tanti sacerdoti è stata una bella testimonianza dell'essere un "unico presbiterio" nei momenti importanti: aspetto questo sottolineato dallo stesso Cardinale Vicario".

Voglio onorare la memoria di questo Prete esemplare, di puro stampo romano, postando per intero la Prefazione dell'ultimo libro del grande intellettuale, nonchè strenuo difensore della Tradizione nei terribili tempi dei cambiamenti post conciliari, CARLO BELLI che io ho avuto il privilegio di frequentare assieme alla Sezione Romana di Una Voce, mi donò generosamente anche l'ultimo suo libro : ALTARE DESERTO
( Breve storia di un grande sfacelo)
- Giovanni Volpe Editore, Roma, 1983 - dedicato
" alla cara memoria di Emilia Marini Pediconi che ha combattuto fino all'ultimo suo respiro contro i pericoli della Chiesa post-conciliare".
La Vedova del compianto Dott. Belli mi  raccontò che da oltre Tevere sconsigliarono vivamente la pubblicazione del libro perchè il nuovo Papa Giovanni Paolo II avrebbe certamente sanato le dolorose vecchie ferite.
L'allora Cardinale Joseph Ratzinger volle celebrare in San Pietro, nel nuovo rito, una  Santa Messa in latino alla presenza di molti fedeli legati all'antica liturgia.
La vedova del Dott. Belli, commentando quell'iniziativa, mia pare nel 1984, mi disse che era rimasta favorevolmente colpita dal modo in cui il Cardinale aveva celebrato e che una fiammata di speranza si era accesa nel suo cuore.
Ecco dunque la Prefazione del citato libro di Carlo Belli : ALTARE DESERTO ( Breve storia di un grande sfacelo) Roma, 1983.

PREFAZIONE
Le pagine che seguono raccolgono e commentano alcuni momenti del cataclisma che si è abbattuto sulla Chiesa negli anni Sessanta, sotto il pontificato di Giovanni XXIII e di Paolo VI.
Di questo uragano che nel giro di pochi anni annientò le più venerate tradizioni della Cattolicità, oggi più nessuno sì ricorda, né può accorgersi dei risultati deleteri che ha portato, mancando ormai un termine dì paragone fra il passato prossimo e il presente; dico tra gli splendori della più che millenaria liturgia dì prima e le squallide funzioni odierne.
Il soffice tappeto dell'oblio ha coperto eventi che parevano (e lo erano) catastrofici, e la generazione nata in questo tornado ne è stata coinvolta al punto dì ritenere normale ciò che è uscito dallo sconvolgimento pressoché totale del fasto precedente.
Coloro che sono sulla trentina non hanno ormai che un pallido ricordo della cosiddetta « Messa Tridentina », la Messa di sempre, quella codificata da San Pio V, conosciuta con termine equivoco « Messa in latino ».
Non si trattava soltanto di latino, ma dì princìpi liturgici ritenuti intoccabili; proprio quelli che furono cancellati, a sfida dei numerosi e terribili anathema sit lanciati contro chi avrebbe osato toccare la Santa Tradizione, elencati nella famosa Bolla cinquecentesca del Papa santificato. Formule, prescrizioni, dogmi intoccabili — basterebbe quello della Divina Presenza nella particolata consacrata — tutto fu travolto dalla cosiddetta « ala marciante » di un clero progressista e populista, deciso a togliere di mezzo il sentimento soprannaturale della Religione per adeguare questa alla cosiddetta « realtà del mondo ».
Ciò era stato possibile anzitutto per le « aperture » politiche e mondane praticate da Giovanni XXIII, poi rinsaldate, smentite e riaffermate non si sa quante volte da Paolo VI in un gioco di dubbi amletici che finì per dilaniare la compagine della Cattolicità; il che fece scendere per prima cosa le vocazioni a una scarsità impressionante, portando il deserto nei seminari e nei conventi.
Invano Cristo aveva detto: Il mio regno non è di questo mondo.
Una turba di preti scalmanati, protetti da qualche cardinale straniero e da una torma di vescovi dissennati, riuscì a capovolgere l'ammonimento divino, facendo della Chiesa non un porto di salvezza, ma soltanto uno strumento mondano.
Le conseguenze furono immediate.
La Messa come spettacolo in vernacolo, sulle prime attirò le folle, poi, fase prevista, vi fu stanchezza, infine sazietà.
Oggi, si segue la Messa come una cerimonia profana in piazza. Oppure non si segue addirittura.
A tanto sfacelo non mancò una reazione vigorosa.
Si costituirono in tutto il mondo gruppi di cattolici dissidenti, raccolti in varie associazioni — la più nota Una Voce — operanti in ogni Stato d'Europa e d'America (ma anche in India!), e si eres¬sero a barriera della tradizione.
Erano schiere di laici cattolici ferventi, bersagliate dalla Curia, la quale, con disegno a dir poco demoniaco, indicò come eretiche le difese della Tradizione.
E ciò veniva proprio dagli eretici della stessa Curia!
Si possono ricordare a questo proposito i diciannove splendi¬di articoli di mons. Domenico Celada, veri fari illuminanti su ciò che stava per accadere nella Chiesa: argomentazioni iperacute sostenute da una eccezionale sapienza teologica.
Questi scritti. che andrebbero ripubblicati come prezioso contributo alla verità storica, ancor oggi vivissimi dopo circa vent'anni, apparvero sul quotidiano II Tempo, allora diretto da Renato Angiolillo che li pubblicò coraggiosamente, sfidando l'avversione della Curia. la quale si sfogò, togliendo ogni incarico al sacerdote-scrittore (insegnava musica e storia del gregoriano all'Università latera-nense), riducendolo alla più nera indigenza, avendo ì genitori a carico. Si ridusse a vivere con la madre in una casetta di Ostia: dopo poco più di un anno, si ammalò e morì giovane tra il compianto di tutti quelli che lo avevano conosciuto e, negli ultimi tempi, aiutato.
Altra figura di alto rilievo, non meno vìttima dì assurde persecuzioni, Padre Cornelio Fabro della Congregazione dei Padri Stìmmatini, uno dei teologi più acuti d'Europa.
Le sue ricerche, le sue pubblicazioni si rivolgono soprattutto alla fenomenologia dell'essere. Insegnava alla Cattolica di Milano e aveva cattedra anche nella Lateranense romana. Autore di alcuni libri dì pro¬fondo interesse, tra i quali non sì possono dimenticare  L'avventura della teologia progressista, e La svolta antropologica di Karl Rahner, tutti e due editi da Rusconi a Milano, nel 1974. Padre Fabro ebbe a svolgere memorabili conferenze per « Una Voce - Italia », finché non fu ridotto al silenzio dalla persecuzione post-conciliare. ,
E non furono i soli pilastri di Una Voce - Italia. Ricordo il giovane Tangheroni, brillante e coltissimo professore all'Università dì Sassari, in alcune conferenze pronunciate con una forza di argomenti capace di travolgere anche le più accanite resistenze. Né possiamo tacere di mons. Vaudagnotti valoroso defensor fidei sul diffuso periodico « Notizie » di Torino, e i fervorosi compilatori di « Chiesa viva » di Brescia, nonché il temerario don Putti che da otto anni sfida ogni quindici giorni la Curia dalle colonne del suo « sì sì, no no ».
Le pagine che seguono, dunque, da me scrìtte, e pubblicate su un coraggioso quotidiano di Roma tra il 1966 e il 1976, vogliono dare un panorama del cataclisma che in quegli anni si abbatté sulla Chiesa.
Queste note ebbero un séguito certo superiore al merito, ma valsero a ridare un po' la fiducia a molti che l'avevano perduta.
In una seconda parte del libro sono raccolti alcuni testi di discorsi, o conferenze, o conversazioni, tenuti da chi scrive ai soci di « Una Voce » distribuiti nelle varie sezioni italiane, da Napoli a Torino, da Venezia a Firenze, a Roma, a Macerata e altrove, a contestazione di quanto si andava attuando. Non sarebbe corretto considerare tutto ciò come accaldata polemica contro l'Autorità della Chiesa.
Si tratta piuttosto di un blocco di argomentazioni dirette contro quei nuclei (purtroppo diventati esercito) di un clero demonizzato che agirono sotto l'egida di due papi, producendo un male che parve irreparabile.
Non vi è dubbio tuttavia che questa nobile resistenza alle follie dei falsi novatori qualche cosa abbia prodótto.
Già nel 1980, l'attuale pontefice Giovanni Paolo II indirizzava a tutti i presuli e sacerdoti una lettera apostolica per ricordare il ca-rattere sacro della Messa e porre un freno alle innovazioni liturgiche non autorizzate e alla persecuzione contro i cosiddetti « tradizionalisti ».
Una vera e propria condanna contro gli abusi del cosiddet¬to rinnovamento selvaggio.
L'errore più grave, ammoniva il Pontefice, deriva dall'aver voluto mettere in risalto nella Messa soprattutto l'aspetto conviviale, trasformando in un « banchetto », inteso come rito di fratellanza da interpretare in termini esclusivamente sociali, quello che invece è « celebrazione santa e sacra », un « vero sacrificio », ripetizione dell'olocausto sulla croce in cui il sacerdote impersona Cristo.
Certe sperimentazioni, affermava la lettera apostolica, « possono suscitare disagio e anche scandalo tra i fedeli ».
Ebbene, qualche tempo dopo la promulgazione di questo importante documento contro le deviazioni mondane dell'attuale liturgia, accadeva a chi scrive di entrare in una piccola Chiesa parrocchiale di Roma, precisamente nel quartiere di Monteverde nuovo, e di assistere esterrefatto a una scena incredibile: finita la Messa, un lungo, caloroso applauso scoppiava sui banchi della Chiesa.
Che era accaduto? Nulla. Lo spettacolo era finito.
Mancava che calasse un sipario.
A quando un bell' applauso anche al momento dell'Elevazione ?
( Carlo Belli )







mercoledì 28 settembre 2011

L'ARTE CATTOLICA DELL'INGINOCCHIARSI DAVANTI A DIO , di LDCaterina63



Il santo Padre Benedetto XVI da maggio 2008 in occasione della Festa del Corpus Domini, ha deciso, nelle Messe da lui celebrate, che i fedeli ricevano la Comunione dalla sue mani in bocca e in ginocchio, su inginocchiatoi messi a tal fine davanti all’altare. Nello stesso tempo aveva già riportato il Crocefisso sull'Altare raccomandando, con mitezza e con responsabilizzazione, che tutte le Chiese (ossia anche le Parrocchie) si adoperassero per una corretta interpretazione della Riforma liturgica del Concilio Vaticano II, la quale non ha mai fatto propria Norma quelle alcune modifiche nella Messa che, invece, presero il sopravvento producendo abusi e dissacralità nella Messa stessa.

Approfondiamo, almeno un poco, la disciplina della Chiesa su questo tema!

Il Cardinale Antonio Cañizares, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti l’ha esposto in sintesi e con grande chiarezza nel febbraio del 2009 in un’intervista alla rivista “30 Giorni”:
“Come è noto, l’attuale disciplina universale della Chiesa prevede che di norma la Comunione venga distribuita nella bocca dei fedeli. C’è poi un indulto che permette, su richiesta degli episcopati, di distribuire la Comunione anche sul palmo della mano. Questo è bene ricordarlo. Il Papa, poi, per dare maggiore risalto alla dovuta reverenza con cui dobbiamo accostarci al Corpo di Gesù, ha voluto che i fedeli che prendono la Comunione dalle sue mani lo facciano in ginocchio. Mi è sembrata un’iniziativa bella ed edificante del Vescovo di Roma.”
Di conseguenza, lo stesso Cardinale, che allora era ancora Primate di Spagna e Arcivescovo di Toledo, dispose che nella chiesa Cattedrale di Toledo si ponesse un inginocchiatoio per coloro che desideravano “comunicarsi con rispetto e come lo fa il Papa”, ricevendo la Comunione in ginocchio.
E ancora: “Le liturgie pontificie infatti sono sempre state, e sono tuttora, di esempio per tutto l’orbe cattolico”.

Non è un segreto che Benedetto XVI ha sempre sostenuto la Comunione in ginocchio. Quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, sottolineava che la pratica di inginocchiarsi per ricevere la Sacra Comunione ha a suo favore una tradizione plurisecolare, ed è un segno particolarmente espressivo di adorazione, del tutto appropriato in ragione della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate. Dietro il gesto di inginocchiarsi il Papa vede, dunque, niente meno che una conseguenza della fede cattolica nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.

Vale la pena penetrare maggiormente il suo pensiero, attraverso le pagine della sua opera “Lo spirito della Liturgia”, pubblicata quando era ancora Cardinale. Nel capitolo dedicato al tema della prostrazione, dice: “L’espressione con cui Luca descrive l’atto di inginocchiarsi dei cristiani è sconosciuta nel greco classico. Si tratta di una parola specificamente cristiana. Può essere che la cultura moderna non capisca il gesto di inginocchiarsi, nella misura in cui è una cultura che si è allontanata dalla fede e non conosce ormai Colui di fronte al quale inginocchiarsi è il gesto appropriato, anzi, interiormente necessario. Chi impara a credere, impara anche ad inginocchiarsi. Una fede o una liturgia che non conoscesse l’atto di inginocchiarsi sarebbe ammalata nel punto centrale. Là dove questo gesto sia andato perduto, bisogna impararlo di nuovo, per rimanere con la nostra preghiera in comunione con gli apostoli e i martiri, in comunione con tutto il cosmo e in unità con Gesù Cristo stesso”.
Conoscere, credere, rimanere nella fede, queste sono le condizioni di base da cui nasce il “bisogno interiore” di inginocchiarsi.

Dove la pratica di inginocchiarsi si è persa, “bisogna impararla di nuovo”, diceva l’allora Cardinale Ratzinger.
E di nuovo, nella sua prima Esortazione Apostolica, Sacramentum Caritatis (2007), il Santo Padre riafferma: “Un segnale convincente dell’efficacia che la catechesi eucaristica ha sui fedeli è sicuramente la crescita in loro del senso del mistero di Dio presente tra noi. Ciò può essere verificato attraverso specifiche manifestazioni di riverenza verso l’Eucaristia, a cui il percorso mistagogico deve introdurre i fedeli. Penso, in senso generale, all’importanza dei gesti e della postura, come l’inginocchiarsi durante i momenti salienti della preghiera eucaristica”.

Monsignor Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, riassume quest’insegnamento papale dicendo che, ricevendo la Comunione in ginocchio e in bocca, si sottolinea “la verità della presenza Reale di Cristo nell’Eucaristia, aiuta la devozione dei fedeli e introduce più facilmente il senso di mistero”.
Inoltre egli faceva presente in una intervista a Radio Vaticana, nell'aprile 2011: "Nell'ambito liturgico, ciò che il Papa sta indicando con la sua parola e con il suo esempio, è l'applicazione compiuta e fedele del Concilio Vaticano II, in sviluppo armonico con tutta la tradizione liturgica precedente della Chiesa. Il Santo Padre è un Maestro di liturgia, per quanto riguarda i contenuti, l'insegnamento e il pensiero, e allo stesso tempo un grande 'liturgo', perché ci insegna l'arte della celebrazione.
Benedetto XVI ha mutato la liturgia con il suo stesso stile celebrativo e allo stesso tempo con le sue indicazioni e orientamenti. Il Papa ha applicato e sta applicando alla lettera come deve essere celebrata la Messa voluta dalla Riforma del Concilio...", i sacerdoti e i Vescovi, pertanto, dovrebbero così obbedire al Papa nel fare proprie le sue istanze liturgiche. E lo stesso Pontefice, spiegava mons. Guido Marini, è ritornato spesso sul concetto che Roma rimane "il modello verso il quale tutte le altre chiese devono guardare".
Insomma, è il Papa a chiedere che si celebri la Liturgia con quella sacralità venuta meno nelle celebrazioni parrocchiali, ci vuole una buona dose di mala fede per dire "io non lo sapevo!"....

Ci piace sottolineare che grazie anche al Motu Proprio Summorum Pontificum, assistiamo di recente ad una responsabilizzazione da parte di molti Vescovi della Chiesa, verso questa santa disciplina. Sarebbe infatti fuorviante relegare questo prezioso MP esclusivamente al ritorno della Messa nella forma Straordinaria, poichè è il Papa stesso a richiedere attraverso questo Documento, una riforma della Messa nella forma Ordinaria, purificandola dai tanti abusi di questi anni e dove la Messa nella forma Straordinaria, invece, resta un 'ottimo esempio ed una grande testimonianza della sacralità liturgica che dobbiamo riportare allo scoperto.
Vorremmo menzionare soprattutto il Vescovo Athanasius Schenider il quale ha scritto anche un prezioso libretto "Dominus Est" edito dalla Libreria Vaticana, sul come ricevere la Sacra Comunione e il perchè dell'inginocchiarsi davanti al Mistero.

L'arte dell'inginocchiarsi è, per noi cattolici, un segno caratteristico e identificativo non semplicemente di una forma di cultura, ma molto più, di quella identità che ci vede consapevoli del Mistero di Gesù-Ostia-Santa che abbiamo davanti a noi e davanti al quale, appunto, ci inginocchiamo.
Taluni hanno frettolosamente ingannato se stessi e molti fedeli ricorrendo ad immagini della Chiesa primitiva secondo le quali, e secondo la loro interpretazione, i cristiani non si inginocchiavano davanti al Risorto, ma si prostravano!
A rigor del vero occorre dire che questa motivazione è sbagliata ed è malamente interpretata. Nessuno di fatto sa con certezza quale atteggiamento assunsero i Discepoli davanti al Cristo Risorto, parlando di prostrazione va detto che essa veniva fatta generalmente proprio da una posizione che partiva dallo stare in ginocchio e, seduti sui talloni, ci si prostrava con la fronte fino a toccare terra.
Bisogna sottolineare che in discussione non viene messo lo stare in piedi, per esempio, nelle invocazioni, nell'ascoltare la Parola di Dio, o nel seguire i canti, quanto piuttosto assistiamo da tempo ad una battaglia contro la forma dell'inginocchiarsi.
Del resto, per noi Cattolici, vale per tutto il suggerimento della Sacra Scrittura che lo stesso sante Padre Domenico insegnava ai suoi Frati:
Venite, prostràti adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati (Salmo 94,6).
Sant'Agostino, con una immagine efficace, ci spiega la nostra situazione.
E' vero, spiega il santo Padre della Chiesa, che la nostra fede cristiana è racchiusa nella gioia della Risurrezione, la Pasqua rende incontenibile la nostra gioia con inni, salmi, canti di lode e giubilo, ma la nostra vita sulla terra è una Quaresima!

Il santo Padre Agostino, in alcune sue catechesi, rimarca l'atteggiamento che dobbiamo assumere, ci ricorda che la Pasqua per noi è prefigurazione della gloria che vivremo mentre, la realtà che viviamo sulla terra è la Quaresima, per questo la Chiesa insegna il digiuno, la penitenza, la prostrazione, quello stare in ginocchio mentre mendichiamo davanti a Dio le nostre suppliche. Sant'Agostino cita, come esempio i passi dei Vangeli in cui è insegnato quale atteggiamento dobbiamo assumere quando Preghiamo, quando siamo davanti al Signore:

- Matteo 17,15 che, gettatosi in ginocchio, gli disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio. Egli è epilettico e soffre molto; cade spesso nel fuoco e spesso anche nell'acqua;
- Marco 1,40 Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!».
- Marco 10,17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
- Luca 5,8 Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore».

In un articolo comparso sull'Osservatore Romano 4 agosto 2008, così spiegava mons. Nicola Bux: Il sacerdote, per celebrare con arte il servizio liturgico, non deve ricorrere ad accorgimenti mondani ma concentrarsi sulla verità dell'Eucaristia. L'Ordinamento generale del messale romano stabilisce: "Anche il presbitero...quando celebra l'eucaristia, deve servire Dio e il popolo con dignità e umiltà, e, nel modo di comportarsi e di pronunziare le parole divine, deve far percepire ai fedeli la presenza viva di Cristo". Il prete non escogita nulla, ma col suo servizio deve rendere al meglio agli occhi e agli orecchi, ma anche al tatto, al gusto e all'olfatto dei fedeli, il sacrificio e rendimento di grazie di Cristo e della Chiesa, al cui mistero tremendo possono avvicinarsi quanti si sono purificati dai peccati. Come possiamo avvicinarci a lui se non abbiamo il sentimento di Giovanni il precursore: "è necessario che egli cresca e io diminuisca"(Gv 3, 20)? Se vogliamo che il Signore cammini con noi, dobbiamo recuperare questa consapevolezza, altrimenti priviamo dell'efficacia il nostro atto devoto: l'effetto dipende dalla nostra fede e dal nostro amore.

"è necessario che egli cresca e io diminuisca", per fare questo è indispensabile che ci si attivi non solo spiritualmente, ma anche esternamente con atteggiamenti atti a far capire come funziona questo meccanismo:
- inginocchiandomi davanti all'Altissimo, Egli cresce di importanza davanti a me, io mi faccio piccolo ed umile (inginocchiandomi) davanti a Lui.
L'atteggiamento che assumiamo davanti agli altri, poichè siamo umani e sensibili ai gesti, ai segni, è pertanto indispensabile per dare una vera, o presunta, o perfino una falsa immagine del Mistero che celebriamo!
Nella Lettera alla Congregazione per il Culto Divino, del 21.9.2009, il futuro beato, Giovanni Paolo II, così scriveva e ammoniva: "Il Popolo di Dio ha bisogno di vedere nei sacerdoti e nei diaconi un comportamento pieno di riverenza e di dignità, capace di aiutarlo a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole e spiegazioni. Nel Messale Romano, detto di San Pio V, come in diverse Liturgie orientali, vi sono bellissime preghiere con le quali il sacerdote esprime il più profondo senso di umiltà e di riverenza di fronte ai santi misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualsiasi Liturgia".

" anche senza tante parole e spiegazioni ".... Spesso è l'atteggiamento che assumiamo ad essere per noi la testimonianza più concreta di quello in cui crediamo.

Se vogliamo essere credibili, dobbiamo assumere anche un atteggiamento di credibilità: se diciamo che Dio è Vivo è vero nell'Eucarestia, allora non possiamo restare in piedi, o peggio seduti ( a meno che non vi sia qualche grave impedimento fisico) è la stessa virtù dell'umiltà sincera che ci fa piegare le ginocchia davanti al Sommo Re per poter supplicare ieri come oggi:
- Matteo 17,15 che, gettatosi in ginocchio, gli disse: «Signore, abbi pietà di mio figlio......;
- Marco 1,40 Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi guarirmi!».
- Marco 10,17 Mentre usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
- Luca 5,8 Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore»...

Sia lodato Gesù Cristo!
LDCaterina63

( Ringrazio di cuore la carissima LDCaterina63 per questo splendido articolo ! N.D.R. )

PERUGIA : SANTA MESSA PER LA FESTA DI SAN MICHELE ARCANGELO















Giovedì 29 Settembre, alle ore 19,30,



nella Chiesa di S. Michele Arcangelo



(Tempietto di S. Angelo, chiesa paleocristiana, la più antica della Città)



in Porta S. Angelo(Perugia) sarà celebrata una



S. Messa nella forma extra-ordinaria del Rito romano
per la Festa della Dedicazione di S. Michele Arcangelo.




Un avvenimento ecclesiale per la Città !

BENEDETTO XVI : UN GIGANTE DELLA FEDE !




Dalla “pagina” di Facebook di una mia carissima amica, che dall’elezione di Benedetto XVI sta dedicando al Papa ogni istante, della sua vita di madre , di sposa e di cattolica, prendo questa bellissima testimonianza che una Signora, di origine tedesca, ha voluto scrivere in onore del Papa :
Ho pianto per amore e per dolore.
Ho pianto vedendo il Papa lottare per un popolo, il suo popolo, capace di grandi cose come di grandi tragedie.
L'ho visto allo stremo delle sue forze fisiche ma andava avanti con la forza dello Spirito Santo. Ho pianto perché amo la mia terra e spero che lo spettro dello scisma si allontanerà ma conosco anche la caparbietà del mio popolo, la stoltezza, l'orgoglio. Ora tocca a loro e non potevano avere un dono più grande per incominciare la loro personale evangelizzazione, che non la visita apostolica di questo gigante della fede”.
Questo gigante della fede, un “quasi” Dottore della Chiesa è perseguitato come si conviene ad ogni seguace fedele di Cristo.
In questo diabolico attacco al Successore di Pietro sono anche presenti, con particolare crudezza e pochezza di linguaggio (chi ripiega agli insulti dimostra sempre una carenza di argomentazioni) alcuni signori che son contrari all’auspicato rientro “sub et cum Petro” della Fraternità Sacerdotale San Pio X.
Questi sparuti signori pare che hanno preso di mira, come mezzo di diffusione del loro odio per il ventilato “accordo”, un qualificato blog cattolico, sul quale spesso ho l'onore di scrivere anch’io per comunicare gli orari delle Sante Messe nella forma straordinaria e per sottolineare uno dei tanti meravigliosi atti dell’attuale pontificato.
Ripeto : il numero di questi signori si può essere contato con le dita di una sola mano, ma la loro violenza verbale, non tanto nel ragionamento, che spesso è totalmente assente, non può che provocare un brivido di paura.
Paura , perché vedo sempre più lontana dalla visione di quei signori l’urgente e indispensabile carità che deve contraddistinguere ogni cristiano.
Paura, perché con i loro numerosissimi interventi, stanno inquinando il blog facendo fare una brutta figura anche al resto degli (innocenti ed ignari) tradizionalisti.
Paura, perché non è questo lo spirito della pax litugica ( paix liturgique) che potrebbe essere impugnato dai nemici della tradizione , che volutamente fanno di ogni erba un fascio, per diffamare tutti coloro che stanno vicino soprattutto alla Santa Messa antica.
Paura, perché questi signori, accecati dalle loro passioni umane, potrebbero anche reagire con eccessivo nervosismo all’ipotesi di piena comunione della Fraternità Sacerdotale San Pio X con la Curia Romana.
Che il Signore ispiri a questi signori di pregare di più e di abbandonare, di conseguenza, la tastiera del computer lasciando in pace i blog cattolici che servono di collegamento e di riflessione alle diverse realtà ecclesiali, normali, legate alla tradizione liturgica.
Normalità è il sostantivo che si addice alla sempre più frequenti celebrazioni della Santa Messa nel rito antico : sacerdoti normali, nelle normali parrocchie e con dei normali fedeli.
Forse questo da’ fastidio a chi si è sentito spodestato da un’egemonia, forse più ampiamente motivata, che comunque non  spettava loro, poiché il culto cattolico appartiene solo alla Chiesa.
In questo spazio sento anche il dovere di ringraziare lo staff redazionale del blog preso di mira dai signori che sono contrari al cosiddetto accordo della FSSPX e lo faccio "copiando" quanto ho scritto qualche giorno fa sullo stesso blog : "I moderatori della Redazione sono dei volontari che impiegano buona parte del loro tempo libero alla conduzione del blog e, cosa assai più difficile, alla visione degli interventi.
Sinceramente io non mi addentrerei mai nella conduzione di un blog impegnativo in cui i piagnucoloni  son più di coloro che sanno dire : grazie allo staff redazionale  per l' impagabile volontariato ed i sacrifici che fate ogni giorno!
Alcuni miei amici mi hanno fatto uno "scherzo " aprendo un blog.
Nell'accettare , pro tempore, ho preteso che fosse stata disattivata la possibilità di postare i commenti.
Penso che stando avanti ad un blog accade la stessa mutazione genetica che una mia amica romana ha quando si mette in auto transitando per la Capitale : si trasforma ! 
Da una mite e normale donna diventa una specie di tigre ...
Tutti noi davanti ad un blog abbiamo una specie di cambiamento repentino di carattere.
A farne le spese, spesso, l'ottima Redazione". ...


                                            Ubi Petrus ibi Ecclesia
Andrea Carradori

( Un grazie particolare all'amica Dorotea per le splendide foto che ha avuto la bontà di inviarmi)




domenica 25 settembre 2011

La mia lettera al Direttore del Corriere Adriatico sulla musica liturgica eseguita al XXV Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona



















Ill.mo Dott.Paolo Traini,
Direttore CORRIERE ADRIATICO
Ancona


Ho letto l’intervento che la Signora Alessandra Burattini ha opportunamente scritto riguardo la musica liturgica scelta ed eseguita in occasione del recente XXV Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona in particolare nella Santa Messa conclusiva di Papa Benedetto XVI. In diversi siti avevo già letto numerosi commenti riguardo al riguardo..
Plaudo e condivido “in toto” quanto la gentile Signora ha scritto ed in particolare : “E’ possibile che una regione musicale come le Marche e in particolare una città come Ancona non abbia saputo preparare una corale degna di tale nome…
La musica a mio modesto parere è arte vera, ed è l’arte che fa grande una città”.
Dalla mia “anziana” postazione nel campo della musica sacra posso affermare che quanto ha scritto la gentile signora appartiene ai “desiderata” della stragrande maggioranza dei fedeli.
In Italia, in questo caso non si parla di organizzazione vaticana, che è tutt’altra cosa, ci sono sempre dei MA e dei TUTTAVIA.
L’Italia è la terra dei compromessi anche nella musica liturgica e come nella politica italiana nella musica liturgica, in campo CEI, ci sono i dinosauri che hanno generato e generano altri dinosauri.
Vecchi anche da giovani, immersi dentro le mura disadorne di un’organizzazione inesorabile che cala nelle diocesi italiane i propri fedelissimi, l’ufficio liturgico CEI non vede, non sente e non parla.
Non ha voluto vedere ne’ sentire quanto ha riempito di gioia il cuore dei fedeli : dal concerto offerto al Papa dal Maestro Simone Baiocchi di Pesaro il 31 agosto, alle splendide esecuzioni di Madrid per le GMG, citate dalla signora Burattini; dalla Missa Papae Marcelli, eseguita in San Pietro il 29 giugno scorso, alle fresche esecuzioni corali e strumentali in Inghilterra e in Scozia.
Il compositore James MacMillan, ad esempio, che ha arricchito con le sue composizioni polifoniche le celebrazioni di Papa Benedetto XVI in Scozia, è l’icona del nuovo movimento liturgico-musicale “ benedettiano”, totalmente inviso agli uffici liturgici della CEI.
Ma, a quanto pare, noi italiani siamo lenti come le tartarughe : mentre all’estero si muovono “ a tempo” con il Concilio Vaticano II, che ha grandemente valorizzato la musica sacra, definita da Paolo VI come la nobile sposa della Liturgia, e con le innovazioni conciliari di Papa Benedetto XVI, noi siamo rimasti alla concezione liturgica degli anni ’70 fatta di cantarelli ( per di più sconosciuti come quelli proposti ad Ancona) che non elevano le menti non riuscendo a fecondare la necessaria devozione liturgica dei fedeli.
Rimanga impresso nella memoria l’impressionante partecipazione nel canto delle migliaia di fedeli, rimasti muti durante la lunga processione eucaristica dell’8 settembre, che finalmente in piazza IV novembre han potuto cantare il Tantum Ergo e il Salve Regina in canto gregoriano.
E le stelle stanno a guardare.
E  uffici CEI pure.
Un cordiale saluto
Andrea Carradori

venerdì 23 settembre 2011

NON C'E' DUE SENZA TRE ! IL BABUINO OSSERVA INCREDULO I FRATI STRAPAZZATI ANCHE OLTRE TEVERE



Per due volte i Religiosi d'ambo i sessi dell'Italica penisola furono privati della loro identità e dei loro possedimenti dalle leggi soppressive napoleoniche, prima,  e sabaude, poi. 
Non esistevano ancora le Corti Internazionali di Giustizia dell'Aia e di Strasburgo per appellarsi contro una tale violenza psicologica e fisica.
Ridotti alla fame e costretti in molti ad emigrare, pur di non abbandonare il sacro abito, gli Ordini Religiosi d'ambo i sessi non ricevettero giustizia neppure dai  i due Concordati che la Chiesa Cattolica stipulò con lo Stato Italiano.
E' noto infatti che gli Ordini Religiosi non ricevettero alcun indennizzo per la perdita delle loro proprietà e , dopo l'ultimo Concordato,  non usufruiscono neppure dei contributi del famoso 8/1000.
Dopo questa premessa vogliamo descrivere una cosa che mi ha molto colpito.
Per rispetto verso la Comunità mi limito a descrivere sommariamente quanto è accaduto di recente.
Immaginiamo che nella Capitale esiste ancora una piccola comunità religiosa che riesce a sopravvivere grazie alle offerte che i turisti lasciano nella  loro chiesa, da 141 anni proprietà dello Stato, perchè vi è esposto uno dei più famosi quadri del mondo di cui i frati sono, per legge, custodi pur essendone stati, all'epoca, i committenti e i paganti ...
Immaginiamo che da qualche anno, sempre più frequentemente, il quadro viene rimosso per essere portato in giro per il mondo rientrando pure con qualche piccolissima defaiance, cosa normale considerati gli spostamenti a cui è sottoposta la preziosissima tela.
Immaginiamo che all'ennesima comunicazione della rimozione del quadro un fraticello, avendo esaurito ogni scorta di pazienza, presi carta e penna, si è rivolto alle Istituzioni per cercare di arginare le eccessive peregrinazioni del Capolavoro.
Immaginiamo che un politico, da tutti ritenuto  garante dei rapporti Chiesa-Stato, abbia risposto alla "supplica" in modo assai autoritario ( è facile essere autoritari con i miti fraticelli ... mica lo fanno con i "poteri forti" ) .
Il politico cita , nella lettera ai fraticelli, il prestigio per la nostra cultura e la nostra Nazione che il quadro suscita quando è esposto nei musei di tutto il mondo. ( Un prestigio simile a quello generato dalle nostre recenti  vicende politiche ...)
 Immaginiamo , ciliegina sulla torta, una lettera che è arrivata agli umili fraticelli  con uno stemma solenne color color porpora,  proveniente da un Dicastero, culturale, vaticano che, appellandosi al dogma infallibile della laicità dello Stato, ha imtimato ai fraticelli ( anche questi laici-ecclesiastici "nordici" sanno usare metodi autoritari solo con i poveri frati e non  per questioni di fede o di liturgia ... quelli possono aspettare ...) di collaborare con lo Stato che organizza le mostre del quadro nel mondo.
Immaginiamo che, dopo una prima fase di  stupore e di indignazione, lo stesso coraggioso  fraticello , preso il telefono e composto il "santo" numero 06 6988 ...  ha ricordato al Monsignore  in servizio presso quel dicastero che sarebbe "cosa buona e giusta" che la Santa Sede, almeno  nel 150° dell'unità d'Italia, cerchi di comprendere le aspirazioni dei poveri frati, che non ricevendo l'8/1000 ... confidano oltre che nell'aiuto della Provvidenza anche negli spiccioli che i turisti lasciano nella loro chiesa per ammirare il Capolavoro.
" La Santa Sede dovrebbe stare dalla parte di noi religiosi" ha detto telefonicamente il fraticello al Monsignore di Curia; " se noi chiudiamo battenti perchè non ce la facciamo più, lo Stato si riprenderà la chiesa che sarà fatta gestire da una cooperativa di servizi..."
Sicuramente la cosa dispiacerà anche all'estensore della lettera però è facile scrivere di "piena collaborazione con le istituzioni statali" quando si sta comodi in un ufficio di Curia non condividendo minimamente la non romantica quotidianità delle ormai disossate comunità religiose a Roma e nel resto del mondo.
Il Babuino intanto sta a guardare ... mentre il Tevere scorre ...

Andrea Carradori

TOLENTINO, SANTA MESSA CANTATA NEL RITO ANTICO




SANTA MESSA NELLA FORMA EXTRAORDINARIA DEL RITO ROMANO
secondo le disposizioni del Motu Proprio Summorum Pontificum di S.S. Benedetto XVI.
SANTA MESSA CANTATA
XV Domenica dopo la Pentecoste
celebrata dal Rev.do Don Andrea Leonesi, Parroco
DOMENICA 25 SETTEMBRE ORE 17:00
Chiesa DEL SACRO CUORE"
Via Corridoni, Tolentino

Dopo la S.Messa saranno benedette le due statue degli angeli donati per proteggere i giovani della Città.
Preghiera a San Vincenzo Maria Strambi, Vescovo, Confessore della fede, che nel 1805 ha fondato la Confraternita del Sacro Cuore detta dei Sacconi.


giovedì 22 settembre 2011

ANCHE I MARCHIGIANI, QUALCHE VOLTA, SI SVEGLIANO !!!















Al Direttore del Corriere Adriatico
Ancona

 Gentilissimo Direttore, le scrivo per esprimere il mio parere. Ho seguito con interesse alla televisione sia la messa celebrata dal Papa in occasione della giornata mondiale della gioventù di Madrid sia quella celebrata ad Ancona per il Congresso Eucaristico e confrontando i due eventi, sono rimasta colpita negativamente per l’accoglienza “musicale” riservata al Santo Padre. E’ possibile che una regione musicale come le Marche e in particolare una città come Ancona non abbia saputo preparare una corale degna di tale nome e una orchestra ascoltata questa il sabato pomeriggio all’altezza di un tale evento ?!... Niente a che vedere con quello ascoltato a Madrid. La musica a mio modesto parere è arte vera, ed è l’arte che fa grande una città.

Alessandra Burattini


" Questa è una gloria della Chiesa : è un trionfo che danno i Vescovi della Marca.Evviva della Chiesa la Marca veramente cristiana". Papa Pio VII di ritorno dall'esilio in Francia. Le Diocesi marchigiane al tempo della persecuzione napoleonica.



Sacra Immagine della Madonna di Tutti i Santi della Cattedrale Metropolitana di Ancona che aprì gli occhi prima e durante l'occupazione dei francesi della Città Dorica.


Il Santissimo Crocifisso della Basilica Concattedrale di Osimo che aprì gli occhi prima dell'invasione dei francesi della Città.














Elenco delle Diocesi delle Marche durante la persecuzione napoleonica.

(Da uno studio del Canonico don Cesare Fini  della Basilica Cattedrale di Recanati , ora Con-cattedrale di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia)

Quando le Marche vennero invase dai rivoluzionari francesi nel 1796 la maggior parte i Presuli delle Marche apparteneva al ceto nobile. La maggior parte della nobiltà marchigiana aveva cercato il compromesso con gli invasori al fine di mantenere il loro patrimonio . Ben diverso il comportamento del popolo, che aveva dimostrato l’assoluta fedeltà alla Chiesa, anche a prezzo del sangue. Una parte dell’aristocrazia marchigiana, tuttavia, fra cui i Conti Leopardi di Recanati, aveva dimostrato fedeltà alla santa religione cattolica ospitando generosamente alcuni sacerdoti e religiosi che erano riusciti a fuggire dalla Francia durante la furia giacobina. A seguito della persecuzione napoleonica molti vescovi marchigiani furono esiliati : ne tornarono solo sei. Alcuni Vescovi, sia pur malandati poterono far ritorno in Diocesi solo dopo la caduta di Napoleone gli altri esiliati senza alcuna considerazione per l'età o lo stato di salute morirono nei luoghi di concentramento. Complessivamente, con diverse motivazioni sempre di comodo per gli occupanti, i vescovi lasciati nelle loro diocesi furono sette ai quali si aggiunse l'opera instancabile del Ven.Giuseppe Bartolomeo Menochio, religioso Agostiniano, in attesa di Beatificazione. Monsignor Menochio fu cacciato dai francesi dalla sua sede episcopale di Reggio Emilia e dovette “supplire” a numerose sedi vescovili vacanti nelle Marche.( http://www.santiebeati.it/dettaglio/90184 ) Mons. Menochio, confessore del Papa Pio VII, sostituì i molti vescovi esiliati soprattutto per conferire le ordinazioni sacerdotali . A proposito dell'assoluta fedeltà al Papa dei vescovi delle Marche disse a Pio VII : " questo è una gloria della Chiesa....è un trionfo della Chiesa che danno i Vescovi della Marca. Evviva la Marca veramente cristiana!"
Ecco l'elenco delle Diocesi della Marca e dei loro Vescovi all’epoca della persecuzione e dell’occupazione dei francesi.
Ancona : l'Amministratore Apostolico Vescovo Francesco Saverio Passeri sopportò umiliazioni, sofferenze e disagi di ogni genere. Durante il governo episcopale di Mons. Passeri Ancona si distinse per l’eroismo del popolo nella difesa della fede. Il 25 giugno 1796 l’immagine della “Madonna di tutti i Santi” conservato in un’elegante cappella del Vanvitelli nella Cattedrale di San Ciriaco, aprì ripetutamente gli occhi. Il prodigio continuò per circa sei mesi. Il 10 febbraio 1797 Napoleone raggiunse Ancona. I giacobini ed gli anticlericali locali convinsero il Generale di bruciare l’immagine e di punire gli impostori che avevano diffuso tale imbroglio, in maniera particolare i Canonici del Duomo. Il Capitolo della Cattedrale per evitare rappresaglie nei confronti del popolo, che avrebbe difeso, ad ogni costo la sacra immagine, consegnarono di nascosto il quadro a Napoleone. Per prima cosa il Generale lo privò del diadema aureo poi volle prendere il quadro in mano per verificare, di persona, il fenomeno che riteneva essere una truffa dei preti. Cosa incredibile, il Generale Napoleone, dopo essersi “sbiancato” in volto, visibilmente turbato ripose nel petto nella Madonna un prezioso nastro d’oro con pietre preziose che, in un primo tempo, aveva sfilato. Il quadro della Regina di tutti i Santi fu subito ricollocato in Cattedrale con l’obbligo di essere coperto tutta la settimana ad eccezione del pomeriggio del sabato e delle maggiori solennità.
Ascoli Piceno : Mons.Giovan Francesco Cappelletti venne esiliato a Bergamo nel 1811. Cagli : Mons.Alfonso Cingari, esiliato a Bergamo, a Mantova e infine a Milano.
Fano : il Cardinale Gabriele Severoli, che nel conclave del 1823 ebbe il veto dell'Austria per l'elezione a Papa. fu portato a Milano ma poi ritornò nella sua Diocesi.
Fermo : il Cardinale Cesare Brancadoro fu esiliato a Reims e poi, con Pio VII. a Fontainebieau. Fu uno dei 13 Cardinali "neri". Il suo successore il Card. Filippo de Angelis fu rinchiuso in un campo di concentramento da parte della polizia dei Savoia dopo l’unità d’Italia.
Fossombrone: Giulio Alvisini di Farfa fu esiliato a Cornacchie, Mantova-Peschiera, Torino e Milano. Uomo di grande cultura tradusse dal francese le opere dell'abate Barrruid sul giacobinismo.
Jesi : Mons.Antonio Odescalchi fu esiliato a Pavia,Cesano Boscone, nei pressi di Milano.
Macerata : il santo Vescovo Mons. Vincenzo Strambi, passionista, fu arrestato e tradotto a Novara e poi a Milano.
Montalto : Mons..Francesco Saverio Castiglioni, futuro Papa PioVIII, fu portato in esilio a Pavia, Torino, Milano e Mantova.
Pennabilli : Antonio Begni subì la prigionia a Mantova, Pavia e Milano-
 Pesaro : Andrea Mastai Ferretti fu esiliato a Vigevano. Senigallia : II Cardinale Giulio Gabrielli, creato pro-segretario di Stato di Pio VII, ebbe esilio a Parigi Fu uno dei 13 cardinali "neri"
San Severino Marche : Mons.Agnelo Antonio Anselmi fu esiliato a Como.
Urbania e Sant'Angelo in Vado : Paolo Antonio Agostini Zamperoli esiliato a Como (fu uno dei pochi ad organizzare l'insorgenza armata anti-francese e fece addirittura fondere le campane delle chiese per fabbricare cannoni).
Camerino : Angelo Benincasa, cappuccino, si dice che avesse pubblicamente appoggiato il nuovo ordine pur rifiutandosi di prestare giuramento a Napoleone. Non conobbe esilio. Al passaggio di Pio VII a Serravalle di Chienti fu ammonito severamente.
Fabriano e Matelica ; Mons.Buattoni non conobbe esilio poiché riuscì a sedare un tumulto popolare antì francese.
Osimo : Cardinale Giovanni Castiglioni di Milano ebbe il sequestro dei beni. Fu risparmiato dall'esilio a causa delle precarie condizioni di salute. Nella Cattedrale di Osimo il Crocifisso aprì gli occhi il 2 luglio 1796. Recanati e Loreto : Stefano Bellini, fu risparmiato miracolosamente dall’esilio pur avendo ricevuto tale comunicazione dal prefetto.
Solo due vescovi giurano fedeltà a Napoleone : Mons. Spiridione Berioli Arcivescovo Metropolita di Urbino quasi apertamente filo francese, nonostante le sollevazioni spontanee dei fedeli e del Clero e Mons.Angelelli Vescovo di Gubbio, Diocesi che all’epoca apparteneva alla Marca. All’atteggiamento conciliante del Metropolita di Urbino Berioli fece contrasto, altrettanto duramente, l'assoluta ortodossia ed intransigenza del Capitolo Metropolitano. In aperto dissidio con il loro vescovo, il Capitolo non volle assistere alla messa in suffragio del Ministro del Culto Giovanni Bovara, per questo i 12 canonici furono esiliati ad Ancona per 234 giorni. I francesi poi rubarono la preziosa “rosa d’oro” vanto della Città di Urbino , donata in tempi antichi dal Papa conservata nella Basilica Metropolitana. L'Arcivescovo Berioli, ai cui Pio VII donò il perdono.dovette fare, per ammenda, una pubblica penitenza. Per ogni giorno, praticamente fino alla morte, dovette servire, come un semplice sagrestano, tutte le Messe che si celebravano in Duomo.

LA CULTURA NON PUO’ SALVARE L’UOMO


Giorni fa in una radio locale, notoriamente di sinistra, il direttore lesse la lettera di una signora la quale esprimeva tutta la sua indignazione per la classe politica in generale, sottintendendo però un puro disprezzo per i signori al governo. Esprimeva inoltre l'augurio che per poter essere salvati da questo “tsunami berlusconiano”, sarebbe dovuta ritornare la vera Cultura (immagino con la C maiuscola, quella di sinistra…). E’ indubitabile che il tipo di cultura a cui la signora si riferiva (forse lei non lo sa) è quella nata con la Modernità, espressa da quell'Illuminismo giacobino che via via ha rifiutato il Dio di Cristo ponendo sull'altare della divinità surrogati come la Ragione, la Scienza, la Tecnica, la Nazione, il Partito, la Classe Operaia, la Politica ecc ecc, generando all'inizio il giustizialismo giacobino con il taglio di centinaia di migliaia di teste, con il genocidio di Vandea, il primo nella storia dell’umanità, (alla faccia delle categorie di libertà, uguaglianza e fraternità 250.000 persone furono trucidate, vecchi donne e bambini affogati nella Loira, sol perchè volevano rimanere fedeli al papa e al re), con il massacro poi di cinque milioni di giovani sui campi di battaglia napoleonici per esportare il verbo giacobino (su cinquanta milioni di abitanti dell'Europa del tempo), tanto che molte ragazze da marito restarono zitelle. Poi questa Modernità ci ha trascinati tramite i nazionalismi (sconosciuti nel medioevo cristiano) al disastro della prima guerra mondiale. L'avvento dei totalitarismi atei e pagani marxisti e nazi-fascisti e lo scoppio della seconda guerra mondiale, posero fine a quello che veniva chiamato il “pensiero forte” delle ideologie, a cui segui il cosiddetto “pensiero debole” (Vattimo) o che dir si voglia Post-modernità, quella che viviamo oggi. Il via a quest’ultima fu dato dalla rivoluzione sessantottina che parti come marxista e che nel prosieguo si rivelò libertina: quella del “vietato vietare”, della libertà sessuale, della libertà di drogarsi, del crollo delle gerarchie, quella che ha portato le società occidentali ad accogliere a livello di massa il verbo illuminista, che di fatto ha prodotto la secolarizzazione, la scristianizzazione e la decadenza dell’Occidente. Oggi impera il nichilismo (caduta dei valori), la dittatura del relativismo (non esiste più la verità, tutto è uguale a tutto), “il pensiero unico” (che ingiunge di conformarsi alla maggioranza altrimenti si va incontro alla scomunica sociale) e quindi al “politicamente corretto”. (a questo riguardo faccio notare che se un cattolico non è politicamente scorretto, non è cattolico, tutt’al più è un “cattolico adulto”…) Sottoprodotti del Nichilismo sono il Consumismo (ogni cosa ha un prezzo), l'Edonismo (la ricerca spasmodica del piacere), la richiesta di sempre maggiori libertà e diritti, contrapposto al rifiuto dei doveri, fino ad arrivare all’ultimo stadio oltre il quale penso sia impossibile andare: la "libertà di fare il male" che va sotto il nome di: "filosofia del boudoir" postulata duecento anni fa dal più grande libertino della storia, che visse più in galera che fuori per i suoi delitti sessuali: il marchese De Sade. De Sade invitava i francesi, che per portare a termine la Rivoluzione del 1789 e ottenere la vera e totale libertà, bisognava abrogare le leggi contro la calunnia, il furto, l'omicidio, l'aborto, l'infanticidio, lo stupro, l'incesto, la pedofilia ecc ecc. Ebbene non mi pare oggi si sia tanto lontani di fatto da questa filosofia. Emblematico di questa situazione mi pare sia l'aborto. Fino all'avvento della Modernità le leggi degli Stati hanno sempre rispettato la "legge naturale" quella che noi tutti custodiamo nel nostro intimo che ci raccomanda di fare il bene e di evitare il male, che non è altro che i Comandamenti del non uccidere, non rubare, non calunniare, non desiderare la roba d'altri e la donna o l'uomo d'altri ecc.ecc. Una norma diventava legge solo se rispettava la legge naturale e questo si è verificato sempre fino al diciannovesimo secolo. Con l’avvento del Comunismo ateo, che per primo legalizzò l’aborto nel 1918, anche la legge naturale venne disattesa. il Nazismo lo legalizzò nel 1933 e poi via via le democrazie liberali d'Occidente lo fecero negli anni '60 e '70. Queste ideologie liberali, marxiste, naziste, guarda caso, sono i figli naturali e i bastardi di quella Modernità nata con l'Illuminismo che rifiutò con Voltaire e Rousseau il Dio si Cristo. Oggi l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ci rende edotti che in quarant’anni di aborto legalizzato sono stati eliminati (e questo per difetto) un miliardo di feti, un quinto dell’umanità !!! Se si ricorda bene, la legge sull’aborto nacque come fatto drammatico a cui bisognava ricorrere solo per oggettivo pericolo della vita della donna, per casi di violenza e di incesto. Oggi invece dalle nuove generazioni e non solo (UE, ONU), la si percepisce come un diritto (giusto perchè la legge fa cultura). Il diritto di uccidere !!! come appunto il marchese DeSade auspicava due secoli fa. Oggi l’aborto è divenuto un fatto banale, quasi come prendere un aspirina e in moltissimi casi (più di quanti si creda) è scaduto ad anticoncezionale. E’ inutile dire che una società come questa non ha futuro, è una società che corre verso la propria auto-distruzione. Questo penso lo capiscano tutti, anche quelli che pontificano sui mass-media contro la Chiesa e i cristiani, e tutta quella classe intellettuale che informa (male) la nostra società. Dal momento che non vedono vie di uscita a questa situazione disastrosa (che loro stessi in 3-4 secoli hanno determinato combattendo il Cristianesimo) e non osando riproporre una nuova ideologia a cui nessuno crederebbe più, di fatto ci suggeriscono di rassegnarci di vivere, cercando di non esagerare, nel miglior mondo possibile, cioè questo (per loro), dove la caduta dei valori ci porta a constatare un giorno si e l’altro pure figli che ammazzano i genitori per rubare loro i soldi, padri che stuprano le proprie figlie, pornografia infantile incontrollata, omicidi da divorzio, tossicomania e conseguenti malattie psicotiche, suicidi di giovani ecc ecc. Mai però che lorsignori ammettessero che i valori caduti sono cristiani ! Al contrario, in questo grande baillame ci raccomandano di non tornare indietro (dove indietro sta per Cattolicesimo), ma di seguire sempre il “progresso” parola magica che ci imporrà l’eutanasia, il matrimonio omo e relativa adozione, la diagnosi pre-impianto proibita per ora in Italia, ma permessa in Francia dove di fatto e da tempo si fa la selzione della razza, tanto che Didier Sicard noto scienziato francese, presidente del “Comité consultatif national d'éthique” dette le dimissioni per protesta da detto comitato. Infatti non si vede dove sia la differenza tra questa diagnosi pre-impianto e quella che operavano i criminali nazisti per la purezza della razza. Sarebbe auspicabile da parte di diverse nazioni europee che smettessero di celebrare ogni anno i “giorni della memoria”… perché è una grande ipocrisia. Ci vantiamo di aver fatto approvare dall’Onu la moratoria sulla pena di morte per alcuni criminali che la meriterebbero e poi giriamo la testa dall’altra parte per il miliardo di feti (gli esseri umani più indifesi che esistano, gli innocenti per eccellenza) che gettiamo nella spazzatura ! questa è schizofrenia ! Per arrivare poi alle dementi proposte del nostro guru nazionale nonché ex ministro della Repubblica prof.Veronesi dove nel suo ultimo libro con l’assenso del noto filosofo Giorello, suo degno compare, si chiede: - perché proibire ad una bella donna intelligente che vuole un figlio e che odia gli uomini clonare se stessa ? - dov’è il senso che per avere un figlio ci vogliano sempre e comunque un maschio ed una femmina ? Giungendo a dire che in nome della scienza e del progresso, della libertà vorrebbe figli in provetta, figli clonati, ermafroditi. Vorrebbe una società senza l’amore tra uomo e donna. Secondo lui nascerebbe una società felice, in cui ognuno vivrebbe “quell’ansia di bisessualità” che è profondamente radicata in noi e avremo davanti il “paradiso terrestre”. Da un uomo come questo io non mi farei curare nemmeno il cancro ! che sarebbe poi in definitiva la sua vera specialità (specialità in cui sarebbe auspicabile che rimanesse per evitare di dire ancora altre sciocchezze…). Tutto questo va sotto il nome di “rivoluzione antropologica” di cui non molti oggi hanno percezione e cioè il definitivo tentativo, iniziato tre e più secoli fa, di farla finita con il Cristianesimo e con Cristo, farla finita con il sentimento (cristiano) di compassione e di aiuto agli ultimi, per portarci alla più completa disumanizzazione di tipo tecno-scientifico. Per cui me ne frego di problemi di piccolo cabotaggio della politica italiana, che per quella signora, di cui all’inizio, invece sono della massima importanza, quando bollono in pentola, a livello mondiale, problemi incommensurabilmente più gravi quali ho descritto, che porteranno l’umanità a stretto giro ad un redde-rationem inevitabile. E’ sciocco e superficiale, come fanno tanti cattolici adulti, affermare che il credente debba permettere certe leggi salvo poi non usufruirne per dare nuovi diritti e nuove libertà ai non-credenti. Credo fermamente invece a quello che dice Papa Benedetto, che ”una concezione della libertà, che voglia considerare come liberazione soltanto la dissoluzione sempre più ampia delle norme e l'ampliamento continuo delle libertà individuali fino alla totale liberazione da ogni ordinamento, è falsa. Le libertà, se non intendono portare alla menzogna e all’autodistruzione, debbono orientarsi alla verità, ossia a ciò che veramente noi siamo e corrispondere al nostro essere” (legge naturale). Ergo, noi cattolici abbiamo tutti i diritti a contrastare questa cultura che propone leggi devastanti, per salvare il futuro dei nostri figli ! In parole povere, politicamente parlando, preferisco il pluridivorziato premier attuale, persona senza dubbio libertina, (capo di una destra poco acculturata e per certi versi addirittura becera ignorante) che però nei suoi programmi non propone derive eugenetiche ed affini, ad un cattolico (adulto) osservante, fedele alla moglie ma che poi nei suoi programmi dà cittadinanza a proposte di leggi devastanti. Infine farei presente a quella signora che nessun tipo di cultura potrà salvarci e men che meno quella illuminista, di cui constatiamo gli ultimi esiti disastrosi. La signora dovrebbe far tesoro del fallimento totale della sua ideologia, la quale addirittura avrebbe voluto redimere l’uomo, perchè di redentori a questo mondo ne è esistito uno solo: Gesù Cristo. Quando l’uomo vuol fare il lavoro di Dio (la Redenzione) non procura il Paradiso terrestre, ma giusto l’Inferno, come la storia degli ultimi due secoli ha ampiamente dimostrato. Ciò non fa altro che avvalorare la Scrittura: Nisi Dominus aedificavit domum in vanum laboraverunt qui aedificant eam.
F.V.

Il corretto atteggiamento del corpo nella Liturgia, di Mons.Klaus Gamber





Fino a cinquant'anni orsono, e in molti luoghi fino a oggi, i cattolici usavano stare in ginocchio durante l'intera celebrazione della santa messa, con l'eccezione del Vangelo, alla lettura del quale si stava in piedi, e della predica che si ascoltava seduti. In genere erano solo i ritardatari che restavano in piedi per tutta la durata della funzione, fermandosi presso la porta della chiesa. Nel servizio evangelico, ove come è noto il momento centrale è dato dalla predica, e che non intende essere una celebrazione sacrificale, i fedeli in genere siedo¬no anche durante il resto della liturgia, cantando tutti insieme i canti del giorno.
Ci si alza solo al termine per la recita comune del Padre nostro e la benedizione del pastore. Lo stare in ginocchio, a eccezione del momento in cui ci si accosta alla "cena", è sconosciuto ai protestanti: esso è tipicamente cattolico.
Nelle chiese ortodosse orientali le cose stanno diversamente.
Qui l'atteggiamento liturgico fondamentale è da sempre lo stare in piedi, tanto è vero che nelle chiese si trovano pochissimi banchi per sedersi.
Questi sono collocati lungo le pareti laterali, come da noi gli stalli corali nelle chiese dei monasteri e nelle cattedrali, e sono riservati soprattutto alle persone anziane. In oriente le funzioni liturgiche durano sempre parecchio, come minimo un'ora buona e di solito ancor di più: ciò nono-stante i fedeli vi partecipano in piedi. Qui inginocchiarsi sul nudo pavimento o prostrarsi al suolo lunghi distesi è un segno di preghiera fervente o di penitenza.
Al pari che da noi, lo si può vedere soprattutto nei santuari che sono meta di pellegrinaggi.
Anche nell'entrare nella Casa di Dio molti fedeli si prostrano per terra in adorazione, come dice il Salmo 94,6: "Venite, prostrati adoriamo, in ginocchio da- vanti al Signore che ci ha creati".
Purtroppo da noi la genuflessione quando si entra in chiesa va sempre più scomparendo.
Ora ci si chiederà: com'era nella Chiesa antica? non sedevano forse i fedeli attorno all'altare, al pari degli apostoli all'Ultima Cena?
No, anche allora si partecipava alla liturgia stando in piedi.
Nelle basiliche paleocristiane non esisteva la possibilità di sedersi.
Come poi mostra un mosaico del XII secolo, che si trova nella basilica di S. Marco a Venezia, fin nel medioevo, durante la preghiera sacrificale del canone della messa, si usava alzare le mani insieme con il sacerdote.
Questo però non avveniva in modo estatico e allungandosi verso l'alto, come fanno oggi i pentecostali, bensì in atteggiamento modesto. Ciò dovrebbe rendere evidente come il sacerdote non offra il sacrificio da solo, ma lo faccia insieme con i fedeli.
Dell'alzare le mani parla Paolo, quando scrive nella prima lettera a Timoteo (2,8): "Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al ciclo le mani pure senza ira e senza contese". Nell'antichità cristiana si stava in piedi anche per ricevere la santa comunione: i fedeli si mettevano in fila, come mostrano le antiche raffigurazioni della "Comunione degli apostoli", in atto di adorazione, vale a dire con atteggiamento devoto.
Anche nella Chiesa primitiva in verità si usava piegare le ginocchia, come quando Luca negli Atti degli apostoli (21,5) narra di Paolo: "Tutti ci accompagnarono con le mogli e i figli sin fuori della città. Inginocchiati sulla spiaggia pregammo..."; oppure quando Paolo scrive nella lettera agli Efesini (3,14): "Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre di nostro Signore Gesù Cristo...".
La questione che a noi interessa in concreto è la seguente: quale posizione del corpo si adotta oggi nella liturgia?
L'ideale è attenersi, come il più delle volte ritorna ad avvenire oggi, all'uso della Chiesa antica, ove stare in piedi era l'atteggiamento liturgico fondamentale.
Lo star seduti — a parte il caso delle letture e della predica — dovrebbe essere lascia¬to ai fedeli anziani. Questi ultimi in ogni caso non debbono essere spinti a confor¬marsi alla posizione degli altri, come di massima va evitato ogni regolamento rigido a questo riguardo.
Ma deve essere uno stare in piedi con modestia, con la consapevolezza di stare davanti a Dio.
Un tale atteggiamento è in pari tempo ascesi del corpo, e innalza lo spirito, cosa che non si ottiene altrettanto facilmente col sedere comodamente, magari accavallando le gambe.
Il movimento giovanile degli anni venti ha riscoperto lo stare in piedi come atteg¬giamento liturgico: alla celebrazione della messa comunitaria i suoi aderenti evitava¬no di trattenersi nei banchi. Se le circostan¬ze lo consentivano, si ponevano invece di¬rettamente davanti all'altare, nel caso che non si avesse a disposizione una cappella laterale oppure, questo era l'ideale, una cripta (senza banchi). I giovani se ne rendevano conto: la mes¬sa non è la stessa cosa di un pio esercizio, al quale ci si inginocchia, ma neppure una rappresentazione teatrale, cui si assiste comodamente seduti.
La messa è la celebrazione del sacrificio eucaristico, e come tale esige un atteggiamento corrispon¬dente. Che alle letture e alla predica si possa sedere dovrebbe risultare chiaro per chiunque.
Chi frequenta la messa in Russia non ha tale comodità.
Come si è detto qui nelle chiese non vi sono banchi, e non vi sono anche per un particolare motivo, per consentire che nel numero limitato di chiese aperte possa partecipare alla liturgia il maggior numero possibile di fedeli. Per tutto il corso della funzione essi stanno fittamente accalcati, tanto che in Russia è diffuso il modo di dire: "Qui è stretto come in chiesa".
Fin dalle origini, già lo si è detto, inginocchiarsi è espressione di fervente supplica, ma è anche segno di adorazione.
Davanti al Santissimo esposto oppure quando viene trasportato solennemente, per esempio alla processione del Corpus Domini, secondo possibilità bisognerebbe inginocchiarsi. In pubblico questo è anche una testimonianza di fede.
E a nessuno si dovrebbe impedire di inginocchiarsi per ricevere la comunione, secondo l'uso vigente da noi fino a un recente passato.
Questa posizione è in ogni caso accettabile, e ha contribuito di molto a che i fedeli si accostassero con profondo rispetto all'eucarestia. Tuttavia se oggi sia opportuno come singoli comunicarsi in ginocchio è altra questione.
Di massima bisognerebbe, se possibile, addattarsi alla posizione degli altri fedeli, anche se non la si consideri corretta.
D'altra parte però nessuno dovrebbe essere obbligato ad assumere una determinata posizione.
Come è bello che tutto sia fatto in comune, così è altrettanto importante tollerare il punto di vista o l'abitudine dell'altro.
Mons. Klaus Gamber
( Dal Bollettino di Una Voce Italia n.106-107 del 1993 (Titolo originale: Die richtige Kòrperhaltung im Got-tesdienst, in Fragen in àie Zeit. Kirche una Liturgie nachàem Vatikanum II, Regensburg 1989, 132-134. Traduzione italiana di Fabio Marino).

martedì 20 settembre 2011

Il Papa, l'Uomo, il Maestro, il Santo. Pio IX al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti (parte I) Di Andrea Moncada Paternò




































Nella storia, ogni tanto, fan la loro comparsa straordinarie persone: straordinarie perché dotate di qualità non comuni e perché evidentemente chiamate a compiti altrettanto non comuni.
Persone carismatiche, con doni proporzionati alla missione loro assegnata. Persone, quindi, della divina Provvidenza.
Pio IX ebbe dunque dalla divina Provvidenza un compito immane da svolgere e doni proporzionati a quel compito: in tempi anche più procellosi dei nostri, resistendo alla furia delle onde in rivolta e vincendola, traghettò egli il naviglio di Pietro, sotto i colpi del liberalismo massonico ed anticlericale, da un’epoca ad un’altra e portò la Chiesa da un mondo ad un altro salvando tutto il patrimonio della tradizione cattolica, rifiutando nettamente ogni attentato ad essa, ma con essa componendo, nei limiti del possibile, i valori del moderno e del nuovo.
Non è né un caso, né un’esagerazione il fatto che l’ultima biografia del grande Pontefice porti come titolo: Pio IX; papa moderno.
Fu, il suo, un pontificato epocale. Una mentalità, una cultura, una Weltanschauung stava consumando i suoi guizzi residui; egli non le permise di travolgere il patrimonio affidato alla sua tutela. Nasceva e s’imponeva una diversa visione delle cose e dinanzi ad essa tremò, ma senza mai capitolare. Alla visione incentrata in Dio e nella sua rivelazione tentava di sostituirsi quella incentrata nell’uomo, nella sua ragione, nella sua libertà e nei suoi diritti.
Martire della prima, fu il primo papa che seppe saggiamente aprirsi alla seconda. Gli altri han continuato la sua strada. Le condizioni socio-politiche d’allora misero spesso le due mentalità in irriducibile contrasto, quasi che l’una volesse sostituirsi all’altra non solo come diversa nella sua genesi e nel suo orientamento, ma come alternativa, ed alternativa diametralmente opposta.
Per divina disposizione, a Pio IX toccò in sorte di fronteggiare codesta enorme contrapposizione, ma anche d'assumerne alcuni elementi di sicuro valore (p. es. sul piano delle istituzioni sociali) e d’impedire che la scomposta affermazione di altri elementi ridondasse a danno di quel patrimonio, per la cui salvaguardia era al timone della Chiesa.
Di questo Pontefice, che chiamar grande è poco, ripercorrerò la lunga vicenda e mi soffermerò su di essa con alcuni, semplici intenti biografici. L’interesse biografico più estesamente è già stato ampiamente soddisfatto ed "ogni lingua" (Rm 14,11; Ef 2,11) ha tessuto le lodi di papa Mastai Ferretti.
Intere biblioteche, infatti, o parti di esse, son intitolate al suo nome. Ovviamente si dovrà procedere con ordine in mezzo alle non poche difficoltà di lettura del passato e interpretazione di esso.
I - Dalla nascita al sacerdozio
Benché il presente scritto prescinda dal genere biografico, la vita di papa Mastai ed i fatti salienti che lo videro in prima fila non possono esser ignorati del tutto. Egli dunque nacque a Senigallia il 13 maggio 1792, nono figlio di Girolamo Benedetto Gaspare dei conti Mastai Ferretti e di Antonia Caterina Maddalena Solazzi, del patriarcato locale. Dei figli maschi era il quarto, dopo Gabriele, Gaetano e Giuseppe. Fu battezzato il giorno stesso della nascita col nome di Giovanni Maria Battista Pellegrino Isidoro da uno zio, il canonico Angelo Mastai, poi vescovo di Pesaro. Era di delicata costituzione fisica, ma d’intelligenza sveglia e d’indole ottima.
Appena poté, andò a messa ogni giorno con la pia mamma. Rivelò presto la sua devozione eucaristica e mariana. Fu dedito alla pratica dei "fioretti". Era stato cresimato il 6 giugno 1799 dall’Em.mo B. Honorati, vescovo di Senigallia, ed ammesso alla prima comunione nella cappella della Madonna della Speranza in cattedrale il 2 febbraio 1803. I1 20 ottobre di quel medesimo anno entrò nel Collegio dei Nobili, tenuto in Volterra dai Padri delle Scuole Pie. V rimase fino al 26 settembre 1809, dando prova d’ingegno vivace e d’esemplare comportamento.
Lo zio Paolino Mastai, canonico vaticano, l’accolse presso di sé, quando, nel 1809, Giovanni Maria lasciò Volterra e venne a Roma per gli studi superiori presso il Collegio Romano.
Il giovane conte, a quell’epoca, non aveva dato ancora la sterzata decisiva alla sua vita in direzione del sacerdozio.
Era ancora "in stato secolare", come egli stesso s’esprime, quel 10 aprile 1810, quando, a conclusione d’un ritiro spirituale, gettò le basi di tutta la sua futura esistenza: lotta al peccato, fuga da ogni occasione moralmente pericolosa, studio "non per l’ambizione del sapere" ma per il bene altrui, abbandono di sé nelle mani di Dio. E non mancò di rivolgere a sé stesso un’esortazione finale, per impegnarsi con tutte le sue forze all’osservanza dei suoi buoni propositi: "Eseguisci il sistema divino che hai disegnato".
Quel programma (o "sistema divino") era sintomatico della limpidezza interiore del giovane studente, già soprannaturalmente orientato, purtroppo non eran floride le sue condizioni di salute. Soffriva d’improvvisi attacchi che qualcuno considerò epilettici, anche se non si han prove sicure al riguardo. La cosa certa è che fu per questo costretto ad interrompere gli studi. Nel 1812, la malattia gli ottenne 1’esonero dalla chiamata di leva nelle Guardie d’onore del Regno.
 Chiese, invece, ed ottenne nel 1815 di far parte della Guardia Nobile Pontificia; ma a causa del suo male, ne fu presto dimesso. Paradossalmente, proprio in quello scorcio di tempo, San Vincenzo Pallotti gli vaticinò il supremo pontificato e la Vergine di Loreto lo liberò, sia pure in modo graduale, dal male che l’affliggeva. Sempre nel 1815 fu tra i volontari che prestavano la loro opera educativo-didattica ai ragazzi del Tata Giovanni, un istituto dove prenderà poi dimora e che gli resterà caro per tutta la vita. Nel 1816 ebbe una parentesi senigalliese come catechista in una memorabile missione popolare.
Poco dopo, nella Chiesa dell’Orazione e Morte, dove aveva appena finito di servire una messa, si decise per il sacerdozio, ponendo fine ad un quinquennio d’ondeggiamenti.
Vesti l’abito talare, riprese gli studi, ebbe gli ordini minori il 5 gennaio 1817, il suddiaconato il 20 dicembre 1818 ed il diaconato il 6 marzo 1819. Un mese dopo, il 10 aprile, per grazia personale di Pio VII, venne ordinato prete. Ed egli, con chiara consapevolezza del suo nuovo stato, s’impegnò formalmente con se stesso ad evitare la carriera prelatizia per rimanere sempre e soltanto al servizio della Santa Chiesa. Vi rimase di fatto, anche nella carriera e nonostante gli inarrestabilì scatti di essa.
II - Prete e vescovo
Celebrò la sua prima messa ai suoi cari ragazzi del Tata Giovanni, nella Chiesa di Sant’Anna.
Nominato rettore di quell’istituto, vi si fermò fin al 1823. Fu subito evidente con quale spirito fosse andato incontro al sacerdozio.
Assiduo alla preghiera, al ministero della parola, alle sacre funzioni, al confessionale, il prete Mastai era ormai l’uomo per gli altri, specie per i più umili e bisognosi. Univa il raccoglimento alla disponibilità più generosa, I’unione con Dio all’attività del ministero vissuto sulla breccia, la vita contemplativa alla predicazione ed a qualunque altro servizio gli richiedessero le attese e le necessità delle anime. Foglietti provvidenzialmente sfuggiti alla distruzione costituiscono la più probante testimonianza della sua vita interiore di giovane prete, dei suoi spietati esami di coscienza, del suo rifugiarsi nel Cuore sacratissimo di Gesù ed in Maria. Nel 1823 parve prender concretezza il suo sogno segreto: farsi missionario. I1 3 luglio lasciò Tata Giovanni per accompagnare in Cile il Nunzio Apostolico S. E. Mons. Giovanni Muzi e vi restò fin al 1825. Per tale missione, il Segretario di "Propaganda Fide" l’aveva così presentato: "E’ difficile ritrovare persone che riuniscano tutti i requisiti che s’incontrano in questo rispettabilissimo sacerdote. Pietà singolare e soda, dolcezza di carattere, prudenza ed avvedutezza non ordinarie, zelo grandissimo accompagnato dalla scienza che in lui bene si trova in abbondanza,...desiderio di servire Dio e di essere utile al prossimo per le missioni presso gli infedeli".
La madre ne fu profondamente addolorata, soprattutto per l’incognita della salute. Ma né la costernazione materna, né altre contrarietà fermarono l’ardente "missionario’`.
La missione si rivelò più difficile del previsto e richiese soprattutto saggezza, prudenza e spirito di Fede. Eran le doti precipue del giovane Mastai, le uniche armi ch’egli impugnò per il bene della società cilena e l’onore di Dio.
Non era un diplomatico; non lo sarà mai in tutta la vita. Era un prete. E come tale si comportò anche in un contesto diplomatico come quello della missione cilena.
Sarebbe rimasto molto volentieri in quella terra ormai da lui amata. Ma Roma lo reclamò per altri e non meno delicati servizi. Obbedì serenamente. Nel 1825 fu eletto preside dell’Ospizio Apostolico di San Michele: un’opera complessa e grandiosa, ma per non pochi motivi non più all’altezza dei suoi compiti e bisognosa perciò di seria riforma. E’ quel che fece il Mastai con oculatezza pari all’intraprendenza.
Gli esiti furon lusinghieri. Ma il campo nel quale egli prodigava i tesori di natura e di grazia di cui era straordinariamente dotato, restò sempre quello pastorale. Fu un vero apostolo. Aveva appena 35 anni, quando Leone XII, il 3 giugno 1827, lo destinò all’arcidiocesi spoletina. Il novello Pastore vi fece solenne ingresso il 7 luglio.
L’obbedienza al successore di Pietro ne vinse la non formale resistenza, non si sentiva meritevole di tanto e soprattutto era convinto d’essere impari a quanto la responsabilità episcopale gli avrebbe richiesto. Ma il Papa fu fermo nel suo disegno e fece di lui, in quell’occasione, il seguente elogio: "Uomo commendevole per gravità, prudenza, dottrina, rettitudine di costumi, esperienza delle cose". L’elogio rivelava la grande fiducia del Pontefice nel suo collaboratore, il quale lo ripagò da par suo: a Spoleto fu un prodigio di zelo pastorale, che vinse diffidenze ed ostilità di prevenuti, questi a sé conciliando ed assimilando a quanti lo stimavano amavano e seguivano.
Il suo zelo, peraltro, fu fecondato anche da non poche sofferenze. La rivoluzione nel febbraio del 1831, imperversò in tutta 1’Umbria, dopo aver preso le mosse dai ducati di Parma e di Modena, lasciando il segno del suo passaggio a Bologna e perfino a Roma.
A Spoleto trovò la strada spianata da frodi e tradimenti, che resero ancor più pesante la difficile situazione sul cuore dell’Arcivescovo. Questi segui la vicenda, rivivendone intimamente il dramma. Con dolore acconsentì alla difesa, ma non allo spargimento di sangue fraterno. E quando la calma fu ristabilita, elargì a tutti, anche a chi non lo meritava, il suo paterno perdono. Dopo Spoleto l’attendeva un’altra non facile diocesi. Il vecchio card. Giacomo Giustiniani non aveva potuto far altro che dimettersi dalla guida della diocesi di Imola. E Gregorio XVI nulla di meglio intravide che trasferire ad essa lo zelante ed affermato vescovo di Spoleto: era il 22 dicembre 1832.
Il compito, difficile oltre ogni ragionevole sospetto, non sgomentò il Mastai, il quale, della sua nuova diocesi, fece il teatro della sua fede invitta, della sua carità senza limiti, del suo instancabile zelo. Ad Imola, infatti, si confermò uomo di profonda preghiera, predicatore facondo e suasivo, col cuore aperto a tutti, di ogni ordine e ceto; ricercatore indefesso del bene soprannaturale, ma anche materiale, dei suoi diocesani; difensore strenuo della giustizia contro ogni intemperanza e sopruso; promotore d’opportune forme d’educazione giovanile; spiritualmente e materialmente vicino ai monasteri di vita contemplativa, alla cui importanza ed alle cui esigenze sarà anche in seguito sensibilissimo; infiammato per la devozione al Sacro Cuore di Gesù e alla Madonna; tutto premure, se pur fermo sui principi, per i suoi preti ed il suo seminario.
Aveva appena 48 anni, quando, il 10 dicembre 1840, gli fu conferito 1’onore della sacra porpora.
III - Papa
Pur rifuggendo dagli onori per indole e per decisione, si trovò presto sotto il loro peso, tanto più grave quanto più alto fosse l’onore stesso.
Il 1 giugno 1846 morì Gregorio XVI; due settimane dopo, il 14, cinquantadue cardinali si riunirono in conclave per eleggerne il successore.
Sulla sera del 16, il card. Giovanni Maria Mastai Ferretti era già papa con il nome di Pio IX.
Rimarrà sul soglio di Pietro per 32 anni, dando vita al più lungo pontificato della storia. Non è stato, e non è facile, per l’incrocio di circostanze varie e segnatamente per la presenza di passioni politiche, darne un giudizio univoco.
Qualcuno definì Pio IX una "figura complessa", c’è perfino chi lo giudica mediocre e non adatto all’altissimo compito, gli uni e gli altri dando prova di non poca superficialità e di scarsa informazione. Come ieri, così anche oggi la passione e l’emotività sono spesso una griglia deformante nei riguardi della sua figura e del suo operato.
Il pontificato di Pio IX fu indubbiamente difficile, tra i più difficili in tutto l’arco della storia ecclesiastica; il santo Pontefice lo visse tutto raccolto nella sua autocoscienza di Vicario di Cristo, che non gli consenti mai né transazioni né compromessi, pagando di persona la sua coerenza. Sta qui, in gran parte, la spiegazione delle difficoltà da lui incontrate e delle obiezioni che gli vennero mosse.
Al di sopra delle une e delle altre, giganteggia il suo animo di prete, di pastore e di padre. I1 16 luglio 1846, dimostrando per 1’ennesima volta il sentire cristiano che l’animava, promulgò l’amnistia per tutt’i detenuti politici.
Di qualche mese dopo è la sua prima enciclica: la Qui pluribus, del 9 novembre, un documento impressionante per la sua chiarezza, il suo realismo, la sua ampia visione degli incombenti pericoli e dei necessari rimedi. "In nuce" c’era già tutto Pio IX, almeno sul piano magisteriale. I punti essenziali del Vaticano I vi erano anticipati; gli errori di fondo eran nettamente percepiti e condannati; la delimitazione tra verità ed errore in materia di fede e della sua traduzione morale era decisamente segnata ed altrettanto quella tra Chiesa e società segrete. Che non si trattasse di miopia culturale e di spirito reazionario è comprovato dal fatto che, poco dopo, il 13 marzo 1847, concesse per decreto ampia e sorprendente liberta di stampa. 1l 5 ottobre fu la volta della Guardia civica, nel quadro di altre aperture liberali Pio IX si rivelava in tal modo un sovrano saggio ed aperto, capace d’indiscussa fedeltà alla tradizione, ma non per questo meschinamente ottuso dinanzi alla cultura emergente. Il suo acuto discernimento, pur intuendone i pericoli, ne colse anche i pregi. Ed a tale discernimento restano legati i suoi primi atti di governo, i più difficili proprio perché i primi: I’istituzione del Municipio, del Consiglio comunale e della Consulta di Stato, rappresentativa di tutte le province, ed infine dello Statuto. Ben nota e fin da allora non ben capita fu l’allocuzione del 10 febbraio 1848, che conteneva l’implorazione: "Benedite, Gran Dio, I’Italia e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo, la Fede".
Un’altra allocuzione, di portata storica, fu quella del 29 aprile. Confermando in essa il suo "paterno amore" per tutt’i popoli e non per quello italiano soltanto, Pio IX si alienò l’animo dei più accaniti liberali.
A poco valse la sua convinta difesa dell’indipendenza italiana in un dispaccio all’imperatore d’Austria; per non pochi, più facinorosi e prevenuti che patrioti, egli fu semplicemente un traditore. Ed anche in seguito perfino nei libri di scuola, non gli han perdonato un tradimento che non c’era mai stato. Il 15 novembre fu ucciso il capo del governo, Pellegrino Rossi, nove giorni dopo lo stesso Pio IX si vide costretto a lasciare la sua Roma, rifugiandosi a Gaeta. Le cose in effetti si facevano ogni giorno più difficili. Il 9 febbraio 1949 venne proclamata la Repubblica Romana. L’augusto Esule prima si trasferì a Portici (4 settembre), quindi rientrò nell’Urbe e si stabili in Vaticano (12 aprile 1850), dando da allora in poi un’ancor più definita impronta pastorale al suo pontificato. Tutte le genti e tutti i non prevenuti sentivano d’aver in Lui un vero padre, così come, per i suoi sudditi, fu un sovrano amabilissimo. Subito riordinò il Consiglio di Stato (12 settembre 1850), istituì la Consulta per le Finanze, elargì una nuova e più ampia amnistia. Il giorno 20 ristabilì la regolare gerarchia cattolica in Inghilterra; altrettanto fece, tre anni dopo, per l’Olanda. L’11 marzo l853 condannò le dottrine gallicane ed il 28 giugno fondò il Seminario Pio.
Anche le Catacombe, nel maggio del 1854, furon oggetto della sua generosa sollecitudine; nello stesso tempo istituì la Commissione d’Archeologia Cristiana e ne nominò il presidente nella persona del grande Giovanni Battista de’ Rossi.
E’ poi doveroso aggiungere che il 1854 sarebbe rimasto scolpito a caratteri d’oro nella storia personale di Pio IX ed in quella della Chiesa cattolica per la solenne proclamazione dogmatica dell’Immacolato Concepimento di Maria (8 dicembre); in questo dogma, oltre che in quello sull’infallibilità papale (18 luglio 1870), il magistero di papa Mastai raggiunse il suo vertice. E non basta, il 1854 è degno di nota anche per la ricostruita Basilica di San Paolo, distrutta dall’incendio del 15 luglio 1823.
Le iniziative magisteriali, contestualmente a quelle sociali e politiche, si succedevano con ritmo incalzante, confermando insieme la prudenza e l’apertura del grande Pio. I1 3 aprile 1856 egli approvò il piano della strada ferrata nello Stato pontificio la cui prima attuazione (tratta Roma-Civitavecchia) venne inaugurata il 24 aprile 1859.
Il Papa visitò i suoi territori dal 4 maggio al 5 settembre 1857, ovunque accolto da popolazioni in tripudio. Tra il 1855 ed il 1866 inviò missionari tra gli Esquimesi ed i Lapponi del Polo nord, in India, in Birmania, in Cina ed in Giappone. Intensificò le relazioni diplomatiche in Europa e nel mondo. Continuò la sua carità, ora alla luce del sole, ora nascosta, quotidiana, minuta ma significativa. Giorno dopo giorno, era al suo posto, con il cuore e con le mani aperte per chiunque, persone ed opere, avesse avuto bisogno di Lui. L’orizzonte però s’ottenebrava.
I moti risorgimentali, le annessioni piemontesi che smantellavano lo Stato pontificio, l’usurpazione delle Legazioni con discutibili plebisciti e vessazioni anche più sottili perché giuridicamente camuffate da alta e responsabile considerazione per la Chiesa e per la Sede Apostolica, obbligarono Pio IX a porsi sulla difensiva a tutela della libertà e dei diritti inalienabili dell’una e dell’altra.
Mantenne sempre, peraltro, il suo sguardo attento al bene delle anime come "suprema legge" del suo e d’ogni altro ministero ecclesiastico. Nel 1862 eresse un dicastero speciale per gli affari con i cristiani di rito orientale e 1’8 dicembre 1864 emanò una delle sue più famose encicliche, la Quanta cura seguita dal non meno famoso Syllabus, per condannare l'insieme degli errori moderni. Le sempre crescenti difficoltà politiche avevan l’effetto d’impegnarlo ancora di più, se possibile, nella cura pastorale. I1 29 giugno 1867 celebrò con straordinaria solennità il XVIII centenario del martirio di Pietro e Paolo. I1 2 maggio 1868 approvò la "Società della Gioventù Cattolica Italiana", fondata il 29 giugno 1867 da M. Fani e G. Acquaderni. L'11 aprile 1869, ricorrendo il suo giubileo sacerdotale, ebbe dal mondo intero uno straordinario omaggio di gratitudine e d’attaccamento alla sua venerata persona. C’è, tra i suoi fasti, un avvenimento d’eccezione: il Concilio Ecumenico Vaticano I, ch’Egli apri il 7 dicembre 1869 e chiuse il 18 luglio 1870.
Con la caduta di Roma (20 settembre 1870) e la perdita dello Stato, amareggiato ma non domo Pio IX si chiuse in volontaria prigionia in Vaticano. Resistette alla Legge per le Guarentigie, celebrò il giubileo del suo pontificato (23 agosto 1871), approvò 1’"Opera dei Congressi" (1874), consacrò la Chiesa al Sacro Cuore di Gesù (16 giugno 1875), disciplinò la partecipazione dei cattolici italiani alla vita politica (29 gennaio 1877), restaurò la regolare gerarchia in Scozia (29 gennaio 1878). Già minato nella sua salute, tenne il suo ultimo discorso ai parroci dell’Urbe il 2 febbraio 1878. Pochi giorni dopo, esattamente il 7, a 85 anni, spirò piamente. II -
L’Uomo Dire dunque di Lui che fu eccezionale, è dire una verità sulla quale soltanto il settarismo e la prevenzione osano d’eccepire. Occorre però precisare meglio sia la portata della sua eccezionalità, sia i livelli specifici sui quali essa s’impone alla serena ed obiettiva considerazione.
Non credo che tale eccezionalità sia da qualcuno intesa nel senso d’una proiezione del personaggio oltre i limiti della documentazione storica e della sua stessa condizione umana; e neanche nel senso d’una sua eccellenza in tutt’i settori dell’umano. Era anch’Egli un uomo: con doti eccelse, si, ma anche con il loro limite il quale, non riducendone le dimensioni, lo caratterizza come quel "singolo" uomo. Doti e limite son così ampiamente documentati, che di Lui si conosce ormai tutto, e solo secondo questa documentazione bisogna parlarne.
Non si può dire, p. es., che fu un politico nato, solo perché lo si è detto eccezionale; ma non si dirà nemmeno che fu un politico fallito, solo perché dovette assistere al frantumarsi del suo Stato. Sarà peraltro opportuno che anche il giudizio sul suo operato politico, probabilmente al di sotto di tutti gli altri suoi meriti, venga vagliato al filtro documentale, non a quello ideologico o a quello emozionale. Sbaglierebbe però, ed alcuni di fatto hanno sbagliato, chi prendesse spunto dal ricordato limite per un giudizio genericamente riduttivo su Pio IX, o peggio per l’attenuazione se non anche la negazione d’ogni valore al suo governo ed alla sua politica. I meriti di Lui restano nella loro intatta realtà, anche se dai documenti risultano più accentuati in un campo e meno in altri.
Alla critica storica spetta di far luce a tale riguardo. Mi pare di poter sostenere che l’eccezionalità di Pio IX, grazie appunto alla critica storica, è oggi un giudizio scientificamente fondato, riguardante tanto le qualità umane di Lui quanto le sue virtù.
Delle une parlerò in questo capitolo; alle altre andrà la mia attenzione strada facendo. I - L "imperterrita serenità"
Parlando di documentazione, non bisogna ignorare quella iconografica, là ovviamente dove esista. E nel nostro caso esiste; addirittura in abbondanza.
Di Pio IX si conserva anzi il dagherrotipo della prima fotografia d’un papa. L’impressione che se ne ricava è quella d’una persona di bell’aspetto anche in età avanzata, dai tratti regolari, lo sguardo sereno, il volto non privo di forza accattivante ed il portamento in pari tempo aristocratico e semplice. Dall’insieme si sprigiona una nota di maestosità, che tuttavia non incute timore. La documentazione iconografica conferma così quella scritta e testimoniale.
Pio IX aveva in effetti un’innata dolcezza ed una singolare delicatezza d’animo, che si notavano in ogni suo gesto e movimento.
Armonizzava insieme dolcezza e delicatezza, qualora ciò fosse stato necessario, con una virile energia ed una forza irriducibile. Bella era la sua voce e robusta. Cantasse o parlasse, affascinava la gente. Un testimone lo ricorda proprio per questo, senza esclusione, beninteso, d’altri motivi: "Non ho mai udito un oratore che avesse così calda e squillante la voce, così sovrani il gesto e lo sguardo".
 I1 fascino della sua voce e di tutta la sua persona non colpiva soltanto i suoi amici ed estimatori, suscitandone o confermandone l’entusiasmo; ma incideva anche sul sospettoso e talvolta astioso atteggiamento dei suoi dichiarati avversari.
L’indole sua, il temperamento, il carattere depongono a favore di quella "imperterrita serenità" che Giuseppe Toniolo, del quale pure è oggi in corso la causa di beatificazione, rilevò nel papa marchigiano poco prima del suo pio decesso. In queste due parole, il cui accostamento dà ragione dell’animo forte e soave poco sopra affermato, sta forse la più obiettiva raffigurazione di Giovanni Maria Mastai Ferretti sul piano naturale. Su tale raffigurazione concorda in genere la critica, eccezion fatta per pochi ed irrilevanti giudizi o diversi o contrari: anche il sole ha le sue ombre a conferma della sua luce.
Depone infatti per la sua fortezza quell’aggettivo "imperterrita" in cui è pienamente riconoscibile il Pio IX che, senza mezzi termini, denuncia i soprusi subiti, non si piega all’ingiustizia, condanna gli errori, difende la Fede, la Chiesa, la Sede Apostolica.
 Il sostantivo "serenità" lo riproduce qual effettivamente era: non "una canna agitata dal vento" (Mt 11,8), non 1’uomo sopraffatto da avvenimenti incontrollabili o, almeno in apparenza, più grandi di Lui, non il fallito che tira i remi in barca e si lascia andare rassegnato alla deriva, ma l’uomo che, forte della propria autocoscienza, innalza una diga di coerenza e di soprannaturale fiducia dinanzi al dilagare delle cose avverse. E di cose avverse fu lastricato il suo lunghissimo ministero papale. 
Il predecessore Gregorio XVI, a suo modo anch’egli grande, gli aveva lasciato un’eredità pesante. Intransigente, autoritario ed anche ostinato, Gregorio aveva combattuto invano sia la vaga religiosità del romanticismo, sia le rivendicazioni antidogmatiche del naturalismo razionalistico, sia il subdolo (quando non era burbanzosamente scoperto) accerchiamento delle sette segrete.
La massoneria imperversava; nelle sue avide mani era ormai ogni potere; la presenza d’una Chiesa dotata non solo del potere spirituale, ma anche di quello temporale, era per essa non più sopportabile.
E così, sul pontificato di Gregorio XVI soffiarono venti fortissimi, che ne provocarono reazioni decisamente autoritarie. Non si trattava di qualche leggero e piacevole zefiro, o di qualche movimento di fronda, erano venti che travolgevano: discordie dinastiche; difficoltà diplomatiche; filosofie in antitesi col pensiero cattolico, teorie teologiche e filosofico-politiche, come il gallicanesimo ed il febronianismo, in contrasto con l’ecclesiologia cattolica e con il diritto pubblico ecclesiastico, contro il primato petrino e contro il suo universale magistero, protestanti e cattolici in lotta, specialmente in Svizzera; I’America latina dilaniata dalla rivoluzione; le idee eversive di Hermes, Guenther e del semirazionalismo in genere.
Si, questi erano i venti, questo l’asse ereditario che piombò d’improvviso sulle spalle del card. Giovanni Maria Mastai Ferretti e che avrebbe fatto impallidire chiunque altro, non lui: "Ecce indignus servus tuus, fiat voluntas tua", esclamò con le lacrime agli occhi nel divenire Pio IX, arieggiando Lc 1,38 in cui Maria assicura a Dio la sua totale disponibilità: "Sono la tua serva; fai di me quanto hai deciso di fare". Il cambiamento di rotta, rispetto a quella di Gregorio XVI, non fu un calcolo. Fu l’effetto della sua innata affabilità, della sua dolcezza, della sua mitezza, della sua inclinazione alla comprensione e alla clemenza.
La gente lo capì e ne fece il più celebrato personaggio dell’epoca, l’uomo più popolare del suo tempo. La clemenza non era acquiescenza. Né poteva risolversi in cedimento.
Dolce e mite, comprensivo e clemente, Pio IX fronteggiò sempre l’eversione rivoluzionaria e non si dette mai per vinto dinanzi alle sue prepotenze.
Fu proprio dinanzi ad esse che emerse la "imperterrita serenità" dell’uomo superiore: concesse senza scendere a patti compromissori, resistette senza violentare l’innata mitezza.
L’amnistia generale, da Lui decretata nel 1849, e gli altri provvedimenti sociali che la contornarono e le fecero seguito son la riprova della "soave fortezza" di questo troppo spesso non capito e talvolta bistrattato Pontefice.
E’ facile scorgere, come concause d’un siffatto atteggiamento, un’intelligenza acuta e penetrante ed una volontà pronta e conseguente. Intelligenza e volontà che, in Lui, si sintetizzano con l’unità e l’armonia della sua "imperterrita serenità". Vedeva la sostanza delle cose, le controllava agevolmente, spesso le antivedeva e decideva: esattamente come avviene in ogni persona di chiaroveggente ingegno e di risoluta determinazione.
La grandezza non comune di Pio IX maturò in codesta sintesi. Riconobbe i tempi e ne lesse i segni.
Capì di dover accompagnare e pilotare il naviglio di Pietro in una turbolenta fase di transizione tra la cultura imperante fin alla rivoluzione francese e quella dei tempi nuovi, non ancora compiutamente evolutisi. Il trapasso non era per nessuno neanche per Pio IX, di facile gestione, non privo essendo d’incognite, di scogli non facilmente superabili e dei correlativi pericoli. Si può perfino convenire, con il senno del poi, che avrebbe potuto esser gestito meglio.
Pio IX lo gestì da Pio IX: con una fedeltà che Egli, lungimirante come non pochi, antepose alla lungimiranza; con la difensiva più che con il pionierismo, combattendo a spada tratta l’errore, dovunque affiorasse, per assicurare alla Fede e alla Chiesa un presente ed un domani conformi ai fasti del passato. II - Sentimenti ed affetti Ogni epistolario, così come ogni diario, è sempre una finestra aperta sulle più recondite pieghe dell’animo e della vita intima di chi scrive.
Pio IX non fa eccezione. In ogni sua missiva si scopre qualcosa di Lui.
Ed altrettanto in quei fogli, numerosissimi e vari, che, sottratti alla dispersione o al cestino, hanno permesso alla critica la ricostruzione storica di vicende giornaliere e della temperie nella quale esse si svilupparono. Si sono così conosciuti particolari interessantissimi anche se non roboanti, relativamente a ciò ch’Egli senti pensò e fece, improvvise stimolazioni sui suoi stati d’animo, vibrazioni intensissime della sua sensibilità e personalità, perfino qualche zona d’ombra, appena percepibile, della sua umana natura. Non poche delle dette lettere e degli scritti sopra accennati permettono una concreta e realistica visione di particolari momenti che segnarono la vita di Pio IX e quasi una partecipazione ai medesimi; una maggiore e sempre più obiettiva conoscenza della sua famiglia e dei rapporti con essa mantenuti; le ripercussioni che ebbe sul suo animo la morte del padre, della madre e dei fratelli; le sollecitudini ed i gestì di non discutibile carità (mai del resto scantonati nel privilegio e nel nepotismo), da Lui compiuti in più d’una occasione a favore di fratelli parenti ed amici.
Da tutto l’insieme emerge un’ulteriore pennellata per una definizione più puntuale della sua immagine, della sua indole, del suo mondo interiore, insomma dei suoi sentimenti ed affetti. Quando non eran in gioco i diritti di Dio, la libertà della Chiesa e della Sede Apostolica, il bene delle anime e la giustizia, prevaleva in Pio IX la tendenza a temperare ogni spigolosità, a scusare le altrui miserie, a presumere una bontà di fondo, almeno intenzionale, anche in chi lo contrastasse.
Si capisce molto bene, tuttavia, che quel suo fare conciliante né indicava, di per sé, una natura imperturbabile, né era del tutto alieno da una forte disciplina interiore. Pio IX aveva, infatti, conosciuto ben presto i suoi difetti e su di essi esercitò sempre un controllo che qualcuno, mal interpretando le sue facezie, le battute spiritose e la capacità di rilevare con immediatezza i punti deboli delle persone e delle cose, stenta ancor oggi a riconoscergli.
Non era certo colpa sua se aveva occhi per vedere ed orecchi per intendere.
Quando s’accorgeva della piega che le circostanze prendevano, non esitava a manifestare il timore che "sotto ci sia qualche giraccio", che responsabili ne fossero i soliti giochi di potere, che le beghe l’avevano profondamente "turbato", anche se si ricomponeva presto nella sua "imperterrita serenità". Non s’equivochi tra questo `imperterrita" e 1’"imperturbabile" poco prima accennato: questo è dello stato d’animo che non s’increspa mai, quello della serenità raggiunta con l’autocontrollo e la costante disciplina. L’innata dolcezza non neutralizzava in Lui la vivacità temperamentale, gli capitava perfino, in qualche rara occasione, di rispondere alle sollecitazioni indiscrete con uno scatto improvviso; qualcuno parla d’irascibilità e di collera. Qualche altro perfino di sarcasmo. Ma l’analisi della documentazione riconduce quei rari fenomeni alle loro effettive dimensioni. Pio IX si controllava. Riportava tutto ciò che sapesse di screzio "al petto dell’amicizia" e l’annullava con la sua carità. D’altra parte, quella sua immediatezza che gli rendeva rapida l’intuizione e la percezione, e ne accelerava di conseguenza l’espressione, non riguardava i casi gravi; non di rado il tutto non era che una battuta di spirito dinanzi alle piccole cose d’ogni giorno. Direi allora: immediato si, ma non impulsivo. Ed ancor meno irriflessivo. Grazie infatti alla riflessione, si facevano strada in Lui la chiarezza, la comprensione, la carità. Metteva a fuoco le situazioni e le altrui posizioni giudicandole secondo la loro realtà, cercava di capirne le motivazioni anche se non tutte poteva scusarle, su tutte però stendeva il manto della carità e là dove s’arrestava la sua capacità d’intervento, tutto rimetteva nelle mani di Dio. La carità non era per Lui un pretesto per tacere, al contrario il suo parlar chiaro era vera carità, come quando scriveva al nipote Luigi: "Siccome avete mantenuta la relazione mi pare indubitato il dovere che vi resta d’adempiere. Me ne furono fatte premure nei febbraio ed io ve ne scrivo in luglio. Vedete che scrivo veramente a caso pensato". Fu sempre, con i suoi interlocutori parenti o no, d’una dolcezza squisita, anche se ferma e mai goffa. Parlavo chiaro, quando era il momento di parlar chiaro: "Protesto di non farne più parola, né di ritornare su questo argomento con chi che sia". Ma sulla chiarezza prevaleva sempre il nobile sentire e soprattutto la bontà del cuore: "Il desiderio di tornare a vedervi è grande", "Divertitevi nel vostro gabinetto, ricordatevi di me qualche volta e crediatemi (sic, ed è spesso ricorrente) costantemente..."; "Voglio credere che i vostri cari figli stiano tutti bene, e ardisco pregarvi di darci un bacio a mio nome". Piccoli ma significativi attestati di quanto vivo fosse il suo sentimento di premuroso affetto per chiunque, a qualunque titolo, fosse entrato in contatto con Lui. Mantenne con i familiari e i parenti un rapporto improntato al rispetto non formale dei legami di sangue, ossia alla sincerità e verità dell’amore. "Vi benedico e vi abbraccio", era la conclusione più ricorrente delle sue lettere. Ma proprio nel culto di tale verità, non volle mai immischiarsi nelle grandi manovre matrimoniali sociali e finanziarie della sua nobile famiglia.
Qualche consiglio, qualche modesto e raro aiuto finanziario tratto dal suo peculio personale ed in casi di provata impellente necessità ("In questo caso ho già stabilito l’aiuto da darti"), o un defilarsi garbato ma fermo: "Il Papa ha sempre dichiarato che niuna parte vuol avere in questo matrimonio"; "Mi dispiace di non poter secondare i vostri desideri; per cui troverete maniera di rassegnarvi". Riemergeva insomma, anche dalle sue relazioni con familiari e parenti, quell’autocoscienza papale, che gli ricordava i "figli" avuti dalla Divina Provvidenza e per i quali, prima che per altri, fossero anche del suo sangue, si dichiarava disposto a dare tutto quanto possedeva.
Del resto, come "potrebbe somministrare denari" chi "vive di soccorsi"?
Non permetteva comunque che qualche suo giustificato rifiuto pregiudicasse l'armonia del rapporto: "Io non ho intenzione di irritarmi con chi che sia e solo desidero ardentemente la concordia e la pace in Famiglia". Aveva però una spina nel cuore e ne soffriva immensamente.
Sua sorella Maria Isabella, sposa d’Isidoro Benigni e madre di Giovanni, s’era separata dal marito per incompatibilità di carattere. Era lei la spina: "Per le cose mie domestiche, niun motivo di doglianza...quello che mi affligge si è la causa ..di questa mia sorella". Un risvolto non esaltante, che peraltro dà, sul piano affettivo la misura d’un Uomo veramente superiore. II - Bonomia ed ilarità Desidero insistere ancora sulla sfaccettatura d’una personalità da qualcuno "equivocata" in base ad alcuni del suoi tratti meno convenzionali. Parlando d’un nobile e per giunta non dei nostri giorni, si è indotti ad immaginarlo tutto compreso del suo alto lignaggio e delle distanze che lo separano dalla gente comune. Trattandosi però del conte Giovanni Maria Mastai Ferretti, papa Pio IX, il ritratto da fare è esattamente l’opposto.
Un papa tra la gente oggi non fa più meraviglia; Giovanni Paolo II ci ha abituati ad una forse programmata rottura degli schemi burocratici ed anche se non si può pensare d’andar liberamente a stringere la mano del Pontefice, è spettacolo frequente quello del Pontefice che stringe la mano ai più vicini, ai lati che fiancheggiano il suo passaggio. Lo schema, a dir il vero, era già stato infranto: Paolo VI, Giovanni XXIII, Pio XII lo fecero in diverse occasioni.
Nessuno può evocare, senza commuoversi, la bianca figura del Pastor Angelicus imbrattata di sangue in mezzo alla popolazione di San Lorenzo, dove un bombardamento era appena cessato. Pio IX non conobbe limiti a questo immediato contatto con la sua gente.
Ogni occasione era buona per abbandonare la carrozza ed intrattenersi bonariamente con i suoi Romani, o per cancellare il cerimoniale fastoso ed imponente dei tempi passati a tutto vantaggio della comunicazione in alto ed in basso.
Quasi ogni giorno rinnovava questa comunicazione diretta e non aspettava d’esser in campagna o fuori porta, come il cerimoniale gl’imponeva, per scender di carrozza, camminare a piedi, fermarsi con i primi incontrati, interessarsi ai loro problemi, ascoltarne gli umori, lasciar loro una buona parola e non soltanto quella. Di fatto si poteva incontrarlo al Pincio, al Corso o in Piazza del popolo, al centro o in periferia, nell’atto di rispondere ad un saluto, di colloquiare affabilmente, d’ascoltare con paterno interesse chiunque avesse avuto bisogno d’esporgli il suo caso.
A distanza di pochi metri, il segretario distribuiva danaro ai poveri: una scena tanto frequente da esser considerata un copione.
Era tanta l’affabilità del Pontefice, tanta la sua semplicità e tanto l’interesse prestato alla consueta litania di suppliche e lagnanze, che la gente si sentiva invogliata a rivolgergliele.
Questo atteggiamento era indubbiamente dettato da un animo aperto e buono, condiscendente e compassionevole, ma Lui, Pio IX, l’aveva anche temprato in tal modo fin da giovane, quando prestava la sua opera tra i ragazzi di Tata Giovanni, e più tardi, quando gli fu affidato il difficile complesso di San Michele, dove toccò con mano la sofferenza e la solitudine dei poveri. Per essi non rifuggiva nemmeno da qualche gesto fuori le righe. Come quando entrò personalmente nel negozio d’un vinaio, acquistò un buon fiasco ad Orvieto e lo regalò ad un ragazzo piangente dinanzi ai vetri rotti del fiasco scivolatogli di mano.
Altre volte, per evitare che i beneficiati si sentissero in obbligo di ringraziarlo, riusciva a far loro pervenire l’aiuto nel modo più anonimo, perfino calandolo da una finestra o introducendolo furtivamente da una porta.
A testimonianza del suo legame con la gente, è da tener presente anche il ragguardevole elenco di fondazioni ed istituzioni varie, volute per sollevare i poveri dalle necessità materiali e morali: dalla fame, dall’ignoranza, dalla solitudine, dalla malattia, dal bisogno.
Segno anch’esse del "cuor ch’egli ebbe". Richiamo infine l’attenzione su un aspetto tra i non meno rilevanti della personalità di Pio IX e nel quale affrettati o prevenuti critici han trovato materia per riserve ed accuse da suggerire all’"avvocato del diavolo". Tale aspetto trova la sua spiegazione nel quadro di quell’immediatezza che fu già rilevata e sottolineata. Alludo alla sua arguzia, alla sua ilarità, al suo umorismo. Ne nascevano battute anche pungenti, o salaci, che o sconcertavano l’interlocutore o lo mandavano in visibilio.
Dicono che l’arguzia sia tra le caratteristiche dei marchigiani; certo è che Pio IX ne era abbondantemente dotato. E ne faceva uso non raro, specie se si trattava d’addolcire l’atmosfera un po’ troppo tesa, di sollevare l’ilarità altrui, di sdrammatizzare qualche momento difficile. In certi casi, basta una parola per troncare un discorso, sviare l’attenzione, suscitare una provvidenziale risata. Pio IX, a questo riguardo, era un vero maestro. Nella sua vita abbondano gli aneddoti legati al suo umorismo. Non posso raccontarne molti; ne segnalo alcuni a solo titolo esemplificativo . Sono noti, p. es., quelli che ebbero per protagonista un certo Mons. Casali, un buon uomo, ma non un pozzo di scienza né una mente acuta. Un giorno, mentre si parlava dinanzi a Pio IX di Papa Sisto V, il buon Casali se ne usci in quest’esclamazione: quelli si che eran veri papi ! Pio IX, nient’affatto offeso, replicò: se lo dice lui! E quando Mons. Casali riferì al Pontefice d’aver ricevuto uno schiaffo dalla madre, Pio IX domandò: uno solo? Ve ne doveva dare almeno due, uno anche per conto mio! Ad un benedettino che smaniava per la porpora rivelò: ho intenzione di far cardinale un benedettino. Si fermò per tenere in tensione il buon padre, poi continuò: il suo cognome incomincia con la P. Si dà il caso che con la P incominciasse quello dell’aspirante cardinale (Pescetelli), il quale però si senti andar il sangue in acqua, quando il Papa concluse: ma non è un italiano.
Ad un genitore che Gli chiedeva di sistemare il figlio di modesto ingegno, Pio IX dette la seguente assicurazione: ho trovato, ne faremo un impiegato della Reverenda Camera Apostolica! Equivocando un giorno sul significato metaforico di "pettinare", mise le mani sui capelli d’una piccola accompagnata dalla mamma, vi nascose 2000 scudi e, con riferimento al padre che aveva ridotto la famiglia in miseria, invitò la bambina a farsi pettinare soltanto dalla mamma.
Aveva la bocca piena e masticava a quattro palmenti un avventore uscito da un’osteria per vedere Pio IX che passava, e gridarGli: "Santità, muoio di fame".
E il Papa:"lo vedo, lo vedo!". Un prete di Romagna, per il quale Pio IX aveva pagato di tasca propria un corso di Esercizi Spirituali in riparazione di sfuriate romagnole, al Papa che lo invitava a non commetterne mai più rispose: non dubiti, Padre Santo, ho imparato a mie spese.
Ma il Papa corresse: vorrete dire a mie spese. Durante un’udienza, Gli fu presentata una signora dal cui cappello svettavano altissime piume. Appena seppe che si chiamava Guerrieri, osservò: già, me n’ero accorto dal cimiero! Un friggitore, sfrattato dal Municipio, fermò la carrozza di Pio IX e Lo pregò di poter continuare a friggere.
Il Papa, avuta una penna ed un foglio di carta, emanò il più faceto rescritto di tutta la sua vita: frigga come vuole, frigga dove vuole, frigga quanto vuole. A chi Gli faceva notare che il Concilio sarebbe costato ogni giorno un numero esorbitante di scudi, Pio IX rispose: non so se da questo Concilio il Papa uscirà fallibile o infallibile, so però che ne uscirà fallito!
Continuare? sarebbe piacevole, ma non aggiungerebbe più nulla alla definizione della sua fisionomia, ormai ben tratteggiata. "Ecco l’uomo", disse un giorno Pilato di Nostro Signor Gesù Cristo (Gv 19,5); "questo è 1’uomo", si può ora dire di Giovanni Maria Mastai Ferretti.
IV- Due questioni a parte
Alcuni storici e personalità pubbliche di Senigallia non esitarono a fare di Pio IX il giustiziere spietato ("sordo non pure ad ogni voce di giustizia, si anche ad ogni richiamo di pietà che gli veniva dal dolce luogo natio") del colonnello della Guardia civica Gerolamo Simoncelli. I fatti son tristemente noti. Due sentenze, l’una del 31dicembre 1851 e 1’altra del 21 febbraio 1852, con votazione quasi plebiscitaria fanno del Simoncelli il capo indiscusso d’una fazione operante a supporto della "Compagnia Infernale o degli Ammazzarelli".
Per la carica da lui ricoperta, che ne faceva non tanto un uomo d’ordine quanto il responsabile dell’ordine pubblico, su di lui furon fatti ricadere, prima che su altri, i misfatti della "Compagnia Infernale" e per essi venne condannato a morte insieme con altri 12 imputati. Il Sovrano, cioè Pio IX, indubbiamente avrebbe potuto graziare il Simoncelli allo stesso modo che graziò, per le condizioni della sua famiglia, il Simonetti. Tentativi a tale scopo non mancarono, ed alcuni autorevolissimi; ce ne fu uno perfino della sorella di Pio IX, Teresa Mastai Giraldi.
Le sentenze ebbero però attuazione e gl’imputati vennero messi a morte. Bisogna, al riguardo, procedere con somma cautela. Non consta che la domanda di grazia sia mai stata avanzata dal Simoncelli in persona; a suo favore intervennero le sorelle, non lui. Il silenzio significò pertinacia, non pentimento; e la grazia si concede ai pentiti.
Consta d’altra parte che Pio IX era ben disposto alla grazia, solo aspettando che il colpevole gliela richiedesse.
Nel silenzio di lui, di fronte a ben due sentenze univoche sulla colpevolezza personale dell’imputato, lasciò (forse a malincuore) che la legge avesse il suo corso. Si noti una circostanza: non firmò il decreto di condanna.
 L'uomo d’oggi resta esterrefatto: una conseguenza dell’imperante buonismo"? Si, ma anche d’una radicalmente diversa mentalità, di quella comune e di quella giuridica. Sta di fatto che la pena di morte urta contro le fibre più sensibili e delicate della coscienza umana.
Oggi in genere la escludiamo. Ma allora? Era legge, come legge era al tempo dei predecessori Gregorio VI, Sisto V e San Pio V. Più che legge, era convinzione morale universale che fosse legittimo cautelarsi contro l’ingiusto aggressore del bene comune anche con la pena di morte.
E Pio IX, in questa così come in altre occasioni, non potè sottrarsi al dovere di tutelare la giustizia e quindi il bene comune: l’ordine pubblico, la legge dello Stato, la difesa degli uccisi. Perché lo si giudica con la sensibilità morale e con le acquisizioni giuridiche di oggi per fatti avvenuti in un altro contesto storico e secondo la logica della sua cultura? Se c’è qualcosa d’ingiusto, è proprio questo mancato trasferirsi nel contesto e nella cultura d’allora per giudicarne fatti e persone in base a parametri di giudizio odierni.
L’altro fatto è quello, non meno delicato, riguardante Edgardo Levi Mortara, un ebreo battezzato clandestinamente, nel 1852, da Anna Morisi che prestava servizio presso la famiglia israelitica dei Mortara a Bologna. Il piccolo Edgardo aveva diciassette mesi circa, quando fu colto da malattia allora giudicata mortale e fu, per questo, battezzato dalla solerte fantesca. Risaputa la cosa nel 1858, per incarico della Congregazione dell’Inquisizione alcuni gendarmi il 24 giugno prelevarono Edgardo e, da Bologna, lo condussero a Roma. Pio IX l’accolse con paterna bontà dichiarandosi suo padre adottivo e provvedendo al suo futuro.
A sue spese lo fece studiare presso l’Istituto dei Catecumeni in Roma e quando il giovane Mortara raggiunse l’età della discrezione, gli domandò se volesse ritornare in famiglia. Avutane risposta negativa, gli continuò la sua alta protezione.
A tredici anni il Mortara fu aspirante presso i canonici regolari di san Pietro in Vincoli e poco dopo (1866) novizio. Professò i voti semplici il 17 novembre1867 a Sant’Agnese fuori le mura ed emise la professione solenne il 31 dicembre 1871 nel Tirolo austriaco. Insegnò poi scienze sacre in Italia e all’estero e predicò indefessamente in varie lingue. Morì a Roma nel 1940 all’età di 89 anni, senz’aver mai perso i contatti con la sua famiglia e mantenendo sempre la più filiale gratitudine a Pio IX, dal quale aveva tanto ricevuto.
Sulla vicenda l’anticlericalismo dell’epoca e non soltanto quello montò il "caso" Mortara. Non mi riferisco ai ben comprensibili tentativi della famiglia per riavere Edgardo ma allo scatenarsi dell’odio liberale e massonico contro Pio IX, "reo" d’aver soppresso il diritto naturale per una "discutibile" questione di fede. Non potendo agire direttamente contro di Lui, fu processato ed incarcerato il P. Feletti, che aveva disposto il prelievo d’Edgardo, nel 1870 lo stesso Mortara, quotidianamente pedinato dalla polizia, preferì emigrare, senza che ciò attutisse il rumore del suo "caso", un rumore che Pio IX in persona chiamò una bufera universale contro di me e la Sede Apostolica", orchestrata da organismi internazionali ebraici ed appoggiata dall’anticlericalismo americano, belga francese, svizzero e perfino russo. Anche la Chiesa anglicana ci mise lo zampino. La ragione è che si volle idolatrare ed assolutizzare il diritto naturale d’un minorenne alla propria famiglia, e di questa che a tutto poteva pensare fuorché alla perdita del proprio figlio.
Non si volle riflettere sulla logica evangelica della salvezza eterna, come prima e suprema legge, alla quale anche il diritto naturale è subordinato. Oggi, come allora, del "caso" Mortara si fa un argomento contro il presunto antiebraismo di Pio IX.
L’accusa ha del risibile. Se c’è un Papa che ha protetto ed aiutato oltre ogni limite gli Ebrei, è proprio lui, Papa Mastai Ferretti. Fin dal 1848, agli albori cioè del suo pontificato, li ammise come "non più stranieri" alle elemosine papali; li proclamò suoi figli; li sottrasse all’umiliante corteo annuale che li portava in Campidoglio per un tributo di legge; e nella pasqua di quell’anno fece abbattere le porte e le catene del ghetto, questo poi allargando e ripristinando.
Le provvidenze a favore degli Ebrei, inoltre, furon tali e tante che alcuni di essi non esitarono a chiedersi se non fosse proprio lui l’atteso Messia.
E’ davvero il caso di ripetere: "Ecco l’Uomo" (Gv 19,5).

Andrea Moncada Paternò


"Il 20 Settembre 1870 si consumava l'ultimo, tremendo atto di un processo rivoluzionario dalle radici antiche, diabolicamente proteso alla dissoluzione della civiltà cristiana, che, principiando dal sovvertimento del Trono, giungeva infine a quello ultimo ed agognato dell'Altare. Ad imperitura memoria del nefandissimo e scellerato anniversario.
Andrea Moncada P."