giovedì 12 gennaio 2017

La salutare "via media": " Vogliamo essere meno pazienti del buon Dio e costringere la gente a un salto mortale?"

Il 27 dicembre scorso avevamo ipotizzato un rilancio della "via media" facendo esplicito riferimento alla sana e concreta visione ecclesiale del Cardinale  Reginal Pole che ha caratterizzato il suo governo episcopale " nel breve periodo di cinque anni in cui, sotto il regno di Maria la Cattolica, l'Inghilterra tornò per l’ultima volta alla fede tradizionale". ( QUI )

Sappiamo che quell'articolo è stato letto, ed anche garbatamente apprezzato, "intra moenia".
Diamo dunque seguito a quella tematica, giudicata interessante, postando un Articolo di Don Elia che ha ricevuto alcune critiche da parte di quel tipo di tradizionalismo fortemente ideologizzato.
Siamo sulla buona strada: "Andiamo avanti" (Cfr.Benedetto XVI) e soprattutto "buona lettura" !!!
AC

La terza via

La crisi nella Chiesa è talmente grave che i sani dovrebbero far quadrato. 
È vero, senza ombra di dubbio. 
Tuttavia, se mi soffermo a osservare i difetti di certi ambienti tradizionalisti, non è per il gusto di “fare le pulci” agli altri, ma per segnalare gravi pericoli che nascono da un’impostazione tendenzialmente settaria e dall’isolamento in cui si sono deliberatamente rinchiusi. 

Non si tratta di piccole magagne o di dettagli di secondaria importanza, bensì dell’essenza stessa della vita cristiana; la posta in gioco è l’essere realmente sani dal punto di vista soprannaturale.


L’adesione alla verità oggettiva non può prescindere completamente dalle condizioni del soggetto che deve conoscerla e praticarla. 
Una tendenza eccessivamente spiccata all’astrazione finisce col perdere di vista la realtà concreta delle persone, che è evidente al semplice buon senso. 
Un sistema di pensiero apparentemente perfetto (perché ogni cosa è incasellata in un posto preciso e ogni problema ha una soluzione prestabilita) rischia di passar sopra le situazioni effettive degli individui e della loro epoca storica, inquadrandole in una bella cornice ma lasciandole sostanzialmente come sono. 
Tali considerazioni non sono un cedimento allo storicismo, al relativismo o al soggettivismo, ma una semplice professione di sano realismo.


La tendenza oggettivante e astraente, tipica dell’uomo, legata alla sua propensione a porsi di fronte al mondo come a una realtà da conoscere e trasformare in base alle sue necessità e interessi, ha bisogno di essere contemperata dal senso della vita caratteristico della donna, il cui temperamento materno la rende sensibile alle condizioni delle persone, ai loro bisogni e alle aspirazioni che le abitano. 
«Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2, 18): è molto più di un problema di solitudine, è un’esigenza di reciproco completamento. 
L’essere umano ha pure bisogno, viceversa, di un padre che, distaccandolo dalla madre, lo renda capace di un’esistenza autonoma e di un giudizio che non sia assoggettato ai sentimenti o alle emozioni.


L’equilibrio tra i due atteggiamenti è un’arte che si apprende alla scuola di Gesù e di Maria. 
Anche l’esercizio del ministero sacerdotale deve comporre armonicamente in sé tratti paterni e materni per poter realmente generare, nutrire ed educare le anime alla vita divina; un eccesso in un senso o nell’altro è comunque deleterio. 
La scomparsa del padre è un fenomeno che accomuna la società e la Chiesa odierne; di qui la deriva nel sentimentalismo soggettivo, in convincimenti personali tanto arbitrari quanto ottusi e pertinaci, in ambigui e asfissianti rapporti di fusione o di ricatto… 
È il trionfo di una “maternità” abusiva e deformata che soffoca i propri figli.


Là dove invece prevale un sistema unilateralmente mascolino, le cose non vanno necessariamente meglio per il semplice fatto che si evitano le deviazioni appena menzionate.
In questo caso, infatti, la dottrina cristiana rischia di trasformarsi in un’arida costruzione intellettuale che può compiacere l’intelligenza, ma non è realmente accolta nel cuore così da poter plasmare la coscienza; il culto e la preghiera possono ridursi a mera esecuzione di riti e di formule che, per la freddezza e il distacco di chi la compie, si risolve facilmente in una disastrosa controevangelizzazione, specialmente dei più giovani; la vita morale può assumere i contorni di un’indifferente ottemperanza a una disciplina esteriore, che scade rapidamente nell’ipocrisia e nel cinismo. Per crescere in una vita genuinamente cristiana non basta conoscere a memoria gli asserti del catechismo o applicare un metodo di valutazione morale come si trattasse di un’equazione matematica.

Sono forse vaghi rischi o questioni marginali, queste? 
Chi legge giudichi. 
Se qualcosa di buono la modernità ha portato, è una maggiore consapevolezza dell’importanza del soggetto, anche nella vita di fede. 
Riconoscere questo è forse un’apertura al modernismo? 
Non mi sembra proprio. 
È piuttosto un’esigenza di fedeltà a quella verità rivelata che deve essere accolta in profondità da persone reali, non da puri spiriti o da astratte entità mentali. 
L’esigenza “maschile” di obiettività richiede che essa sia presentata per quello che è, non per quello che piace a chi parla o a chi ascolta; l’attenzione “femminile” alle condizioni concrete dei destinatari spinge a cercare il modo più adatto perché essa sia effettivamente recepita e compresa in modo vitale.

L’esperienza bimillenaria della Chiesa, nonché quella diretta di ogni buon evangelizzatore, lo conferma. 
Non si sono mai ottenuti buoni risultati asfaltando le menti di formule e precetti; sotto lo strato di bitume le male erbe continuano a svilupparsi indisturbate, fino a forarlo… e il giorno in cui questo accade, amare sono le sorprese, specie nella vita di un sacerdote o di un consacrato. 
È forse meglio – obietterà qualcuno – che l’esistenza di un cattolico (chierico, religioso o laico) sprofondi direttamente nel marcio per l’assenza di qualsiasi regola? 
Non intendo certo questo: evidenziare un inconveniente non significa approvare quello opposto; vorrei soltanto, se possibile, trovare una via equilibrata. 
È faticoso, certo, ma chiunque abbia a cuore la salvezza delle anime non se ne può esimere. 
Tra lo sbraco e l’indottrinamento, perché non tentare con la persuasione?


È indubbio che la liturgia tradizionale trasmetta la fede integra, renda a Dio il culto che gli è gradito e sia più efficace per il bene spirituale dei fedeli; in una parola, è il baluardo della vera religione. 
Ma mezzo secolo di mistificazioni non si cancella in un attimo. 
Le persone hanno bisogno di tempo – nonché di una grazia del tutto speciale – per modificare le prospettive e le coordinate della mente e del cuore; chi scrive lo sa per esperienza personale. 
Vogliamo essere meno pazienti del buon Dio e costringere la gente a un salto mortale? 
Siamo sicuri che ce la faranno o che, al contrario, non abbandoneranno l’impresa scoraggiati senza neanche la possibilità di tornare a ciò che avevano prima, di cui avremo fatto terra bruciata? 
La responsabilità è troppo grande; la Chiesa non è una piccola élite riservata a chi ha una buona dose di intellettualismo e di volontarismo – ammesso che capisca qualcosa all’infuori delle istruzioni che riceve in vernacolo, costretto perciò, sospeso com’è sul vuoto, ad aggrapparsi ad esse senza altri appigli… 
Non credo che il Signore voglia soldatini impassibili e manovrabili a comando: Gloria Dei vivens homo.


Non si tratta di salvare capra e cavoli, ma di cercare una via che sia accessibile al maggior numero possibile di anime.
Non si possono mettere i fedeli davanti all’alternativa: o la Messa tradizionale o niente, così come non si può accusare indistintamente tutta l’attuale gerarchia cattolica di essere modernista e di celebrare in modo da far perdere la fede alla gente.
È vero che le omissioni presenti nel novus ordo, a lungo andare, possono intaccare la fede fino a dissolverla, specie a causa dello stile celebrativo più diffuso; ma a chi non è in grado di fare subito il salto non si può offrire altro che la nuova Messa celebrata con la mens e lo stile dell’antica (e già questo, per molti, è un trauma).
Ci vuole un’infinita pazienza per operare come, del resto, fa Dio con ognuno di noi, prendendo ciascuno per mano là dove si trova e conducendolo, al suo passo, verso il meglio; di colpo non ce la farebbe. 

Non poniamo perciò alla grazia limiti troppo stretti, come se la sopravvivenza della Chiesa dipendesse da ciò che facciamo noi: il Salvatore è uno solo e la Sposa appartiene a Lui.


Fonte : La scure di don Elia

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