Il 12 agosto 1976 il futuro premio Nobel Adolfo Perez Esquivel e sua moglie, i preti e le suore, il teologo belga José Comblin, e diciassette vescovi latinoamericani - in totale, cinquantasei persone - che partecipavano ad un incontro pastorale nell'hogar di Santa Cruz furano arrestati dai militari agli ordini della dittatura militare ecuadoriana con la stessa circospezione che avrebbero usato per l'assalto a un covo di pericolosi terroristi: armati di mitragliatori e bombe lacrimogene i militari avevano circondato l’hogar Santa Cruz con la stessa circospezione che avrebbero usato per l'assalto a un covo di pericolosi terroristi.
I prigionieri furono caricati di forza su un autobus.
Poco dopo, una colonna di auto della polizia scortava verso Quito, duecento chilometri più a nord, il suo carico di "pericolosi" prigionieri.
Sul tavolo del salone dell'hogar Santa Cruz rimase l'oggetto del reato: varie copie, annotate in maniera vistosa e sospetta, del Vangelo. Vangelo sovversivo.
Chi era Leonidas Proaño?
Vescovo di Riobamba, cittadina fredda e misera, molesto per le autorità politiche ed ecclesiastiche, ai tempi dei fatti di Santa Cruz, Proaño aveva 66 anni ed era alla guida della diocesi da ventidue.
Era nato il 29 gennaio 1910 a San Antonio de Ibarra, nella provincia di Imbabura, nel nord del paese.
Quando nacque Leonidas Proaño Villalba, nelle due o tre grandi città dell'Ecuador, si viveva una sorta di belle époque da esportazione: si stavano introducendo i primi tramvai, portati dall'Europa dall'impresa Cordovez-Ricaurte y hermanos, e si stava inaugurando il servizio di acqua potabile. A Quito governava - ancora per poco - il presidente Eloy Alfaro, salito al potere nel 1895 con la rivoluzione liberale, appoggiata dalla nascente borghesia e da vasti settori popolari contro la vecchia oligarchia latifondista legata alla Chiesa. Alfaro aveva promosso una politica di riforme e una progressiva laicizzazione del paese: liberazione degli indios incarcerati per debiti, espropriazione di parte delle terre della Chiesa (che era padrona di una buona fetta dell'Ecuador), introduzione del divorzio, abolizione dei rapporti di sudditanza feudale cui erano sottoposti i campesinos.
Nel 1911, però, Alfaro veniva deposto da una rivolta militare, riparava all'estero, poi rientrava in patria per finire scannato da una folla di sostenitori della "restaurazione cattolica» nel parco El Ejido della capitale.
Per l'Ecuador fu come un brusco ritorno al Medioevo.
L'eco di questi travagli politici arrivava assai attutito tra le viuzze strette e squadrate di San Antonio.
Era nato il 29 gennaio 1910 a San Antonio de Ibarra, nella provincia di Imbabura, nel nord del paese.
Quando nacque Leonidas Proaño Villalba, nelle due o tre grandi città dell'Ecuador, si viveva una sorta di belle époque da esportazione: si stavano introducendo i primi tramvai, portati dall'Europa dall'impresa Cordovez-Ricaurte y hermanos, e si stava inaugurando il servizio di acqua potabile. A Quito governava - ancora per poco - il presidente Eloy Alfaro, salito al potere nel 1895 con la rivoluzione liberale, appoggiata dalla nascente borghesia e da vasti settori popolari contro la vecchia oligarchia latifondista legata alla Chiesa. Alfaro aveva promosso una politica di riforme e una progressiva laicizzazione del paese: liberazione degli indios incarcerati per debiti, espropriazione di parte delle terre della Chiesa (che era padrona di una buona fetta dell'Ecuador), introduzione del divorzio, abolizione dei rapporti di sudditanza feudale cui erano sottoposti i campesinos.
Nel 1911, però, Alfaro veniva deposto da una rivolta militare, riparava all'estero, poi rientrava in patria per finire scannato da una folla di sostenitori della "restaurazione cattolica» nel parco El Ejido della capitale.
Per l'Ecuador fu come un brusco ritorno al Medioevo.
L'eco di questi travagli politici arrivava assai attutito tra le viuzze strette e squadrate di San Antonio.
«Sono figlio di una famiglia povera» racconta Proaño nella sua autobiografia. «Provai, come tutti i poveri, ciò che significa patire la fame e vivere in ristrettezze. Però imparai anche a sopportare le privazioni senza lagni né invidie».
La madre, Zoila Villalba, lo manda spesso da questi o quei vicini con un piatto avvolto in un fazzoletto, annodato in cima: «I miei genitori vi mandano questi fagiolini teneri, para que se sirvan» doveva dire il chiquillo Leonidas. «Il dono poteva essere diverso: mais, fagioli, piselli, patate. Il messaggio era sempre lo stesso» racconta Proaño.
In questo modo, «imparai il significato della semplice fraternità tra poveri: mettere in pratica un aiuto reciproco, generoso e delicato, tra vicini». D'altronde, ragiona il vescovo, «l'inizio delle comunità di base in Brasile si deve a questa filosofia popolare, la filosofia dei poveri, che si esprime così: un povero aiuta un altro povero e, in tal modo, tutto si aggiusta».
Leonidas vive un'infanzia felice. Il padre, Agustìn Proano Recalde, che è costretto a lavorare quasi giorno e notte per mantenere l'unico figlio agli studi, si preoccupa di insegnargli l'umiltà e la fatica manuale. I genitori, per sbarcare il lunario, intrecciano cappelli di paglia di Panama. Allora i clienti erano per lo più contadini, che portavano il sombrero - come tutti gli ecuadoriani - per ripararsi dal sole o dal freddo.
«Sin da piccolo, durante le vacanze estive, imparai a intrecciare cappelli anch'io» scrive monsignor Proaño.
«Mio padre aveva sistemato anche un piccolo laboratorio per aggiustare quegli stessi cappelli che avevamo confezionato o altri usati dalla nostra clientela. Il laboratorio consisteva di una grossa pietra piatta e ben levigata che serviva per "martellare" i cappelli con un mazzuolo di legno; di un grande cassone che si chiudeva ermeticamente e che serviva a sbiancare i cappelli con fumo di zolfo; di un tavolo sistemato in modo da stirare i cappelli e dar loro la forma richiesta dai clienti; per dare la forma si usava un po' di colla diluita e c'era anche una quantità di stampi di legno, per adeguare ogni cappello alla testa e al gusto del cliente. Avevo 10 o 11 anni quando cominciai ad aiutare mio padre in questo lavoro. La parte più dura e pericolosa era martellare i cappelli. Dura, perché le mani si piagavano fino a che non si formavano i calli. Pericoloso, perché il cappello poteva anche rompersi. Ricordo che arrivai a portare a termine questo compito in modo soddisfacente e che ammiravo con orgoglio le mie mani piene di vesciche, sanguinanti e poi incallite».
Quando il padre, alcuni anni dopo, riesce ad acquistare un terreno un po' più grande, cinque ettari, Leonidas impara a seminare, diserbare e raccogliere. «Anche se in piccolo» dice Proaño, «attraverso queste diverse forme di lavoro, assorbii spontaneamente il senso comunitario del lavoro».
L'abilità nel tessere cappelli gli rimase nel tempo e, anche una volta nominato vescovo, talvolta passava il tempo intrecciando paglia. L'umiltà nel disporsi al lavoro manuale si unisce poco a poco con la simpatia verso la gente semplice e alla solidarietà con i diseredati: «Ogni sabato, alla nostra casa, come alle case dei vicini, venivano a bussare persone bisognose, mendicanti. Per espressa disposizione dei miei, io ero incaricato di accoglierli, depositando nelle loro mani qualche piccola somma di denaro, o offrendo loro un piatto di minestra oppure dando loro un po' di viveri ancora da cucinare».
In questo ambiente familiare, profondamente cristiano ma nient'affatto “cucufato”, apprende il senso dell'onore, l'onestà, il gusto per la libertà, il coraggio e la calma nell'affrontare le difficoltà. Soprattutto impara a conoscere e a rispettare la popolazione indigena, che nella società ecuadoriana del tempo costituisce una classe a parte, la più sfruttata, i "paria" del luogo, vassalli disprezzati ed emarginati dalla società blanco-mestiza. Nella provincia di Imbabura, dove Proaño cresce, la situazione degli indios è meno drammatica che in altre zone del paese. Ma, in generale, gli anni Venti e Trenta sono terribili per i settori più poveri della società ecuadoriana. In tutto il paese si contano decine di sollevazioni di comunità indigene esasperate dalle condizioni di vita: a Guano, a Cubijìes, a Guamote, nel Chimborazo; a Pichibuela e a Cayambe, nel Pichincha; a Salasaca, nel Tungurahua; a Quinua Corrai e a Espino, nel Bolivar. Nel 1922 una grande manifestazione di lavoratori viene repressa nel sangue a Guayaquil. E nel 1930 un'altra protesta indigena, a Columbe e a Colta (Chimborazo), viene soffocata dall'esercito che spara sulla popolazione disarmata e compie una vera strage. Secondo lo studioso Moises Saenz, si conteranno circa tremila morti.
In questi anni, dall'ottobre 1923 all'estate del 1930, Leonidas Proaño compie gli studi secondari al seminario minore di Ibarra. Vi è entrato da "esterno", più su pressione del parroco di San Antonio che per un interesse reale per la vita religiosa. Quando ha una giornata libera, si fa a piedi i cinque chilometri di strada fino a San Antonio e va a dare una mano al padre. Coltiva il sogno di diventare pittore. In seminario ha incontrato figure stimabili di sacerdoti, in particolare alcuni religiosi lazzaristi francesi, suoi professori. Ma la Chiesa cattolica del tempo, così chiusa, conservatrice, moralista, paternalista e attaccata al potere, non ha grandi attrattive ai suoi occhi.
Nella sua autobiografia, Proaño racconta ancora: «II problema della scelta finale di un cammino per la mia vita mi si pose alla fine degli studi secondari. Passai per un'autentica crisi. Avevo avuto la buona - o cattiva -opportunità di ascoltare una conversazione in cui si parlava molto male di un sacerdote. Lo si descriveva come una persona con una grande voracità di denaro, molto attaccato alla bottiglia e anche con una forte inclinazione per le donne. La conversazione produsse nel mio animo una ripugnanza tale che il cammino di sacerdote mi apparve detestabile. Tornai a pensare alla pittura. [...] Qualunque lavoro manuale mi sarebbe piaciuto di più che diventare prete. Mi aveva preso una terribile angustia interiore. Non sapevo che fare. In questo stato d'animo terminai gli studi superiori e trascorsi metà delle vacanze. Era come se avessi una muraglia buia davanti agli occhi. Non vedevo chiaro. I miei genitori intuivano la mia preoccupazione e non riuscivano a dirmi altro se non ciò che mi avevano ripetuto tante volte: che dovevo sentirmi libero nella scelta della mia strada».
«Questa libertà risolveva il mio problema. Alla fine mi decisi e andai a Ibarra a parlare con uno dei sacerdoti miei professori, quello che mi ispirava più fiducia. Questo prete mi accolse calorosamente. E pur rispettando anch'egli la mia libertà, mi disse che potevo andare al seminario maggiore per approfondire lì i miei studi di filosofia e, intanto, riflettere se la strada del sacerdozio faceva per me. Sebbene la sua risposta non fosse stata definitiva, mi diede la forza per decidermi a entrare nel seminario maggiore. E in questo modo spiegai la cosa ai miei genitori. La crisi si risolse nei primi giorni della mia permanenza nel seminario. Posso affermare senza incertezza che in quei giorni scoprii il Signore in maniera chiara, profonda, esperienziale, soprattutto nella lettura della Bibbia e nel tabernacolo. Insieme a questa grande luce che mi inondò di gioia, si fece luce anche riguardo al mio cammino nella vita. Vidi che dovevo diventare prete. Me ne feci una convinzione profonda. Da allora, non ne ho mai dubitato. Mi aspettavano periodi molto duri di incomprensione, di lotta, di solitudine. Però ho visto che tutto ciò fa parte della vita sacerdotale, della missione cui ero stato chiamato. E, invece di indebolirmi, questi periodi mi hanno irrobustito e sono diventati persino motivo di allegria».
Entrato al seminario maggiore di Quito il primo ottobre 1930 per studiare filosofìa e teologia, Proaño riceve il diaconato il 7 marzo 1936 e tre mesi dopo, il 4 giugno 1936, viene ordinato sacerdote dal vescovo Carlos Maria de la Torre.
La madre, Zoila Villalba, lo manda spesso da questi o quei vicini con un piatto avvolto in un fazzoletto, annodato in cima: «I miei genitori vi mandano questi fagiolini teneri, para que se sirvan» doveva dire il chiquillo Leonidas. «Il dono poteva essere diverso: mais, fagioli, piselli, patate. Il messaggio era sempre lo stesso» racconta Proaño.
In questo modo, «imparai il significato della semplice fraternità tra poveri: mettere in pratica un aiuto reciproco, generoso e delicato, tra vicini». D'altronde, ragiona il vescovo, «l'inizio delle comunità di base in Brasile si deve a questa filosofia popolare, la filosofia dei poveri, che si esprime così: un povero aiuta un altro povero e, in tal modo, tutto si aggiusta».
Leonidas vive un'infanzia felice. Il padre, Agustìn Proano Recalde, che è costretto a lavorare quasi giorno e notte per mantenere l'unico figlio agli studi, si preoccupa di insegnargli l'umiltà e la fatica manuale. I genitori, per sbarcare il lunario, intrecciano cappelli di paglia di Panama. Allora i clienti erano per lo più contadini, che portavano il sombrero - come tutti gli ecuadoriani - per ripararsi dal sole o dal freddo.
«Sin da piccolo, durante le vacanze estive, imparai a intrecciare cappelli anch'io» scrive monsignor Proaño.
«Mio padre aveva sistemato anche un piccolo laboratorio per aggiustare quegli stessi cappelli che avevamo confezionato o altri usati dalla nostra clientela. Il laboratorio consisteva di una grossa pietra piatta e ben levigata che serviva per "martellare" i cappelli con un mazzuolo di legno; di un grande cassone che si chiudeva ermeticamente e che serviva a sbiancare i cappelli con fumo di zolfo; di un tavolo sistemato in modo da stirare i cappelli e dar loro la forma richiesta dai clienti; per dare la forma si usava un po' di colla diluita e c'era anche una quantità di stampi di legno, per adeguare ogni cappello alla testa e al gusto del cliente. Avevo 10 o 11 anni quando cominciai ad aiutare mio padre in questo lavoro. La parte più dura e pericolosa era martellare i cappelli. Dura, perché le mani si piagavano fino a che non si formavano i calli. Pericoloso, perché il cappello poteva anche rompersi. Ricordo che arrivai a portare a termine questo compito in modo soddisfacente e che ammiravo con orgoglio le mie mani piene di vesciche, sanguinanti e poi incallite».
Quando il padre, alcuni anni dopo, riesce ad acquistare un terreno un po' più grande, cinque ettari, Leonidas impara a seminare, diserbare e raccogliere. «Anche se in piccolo» dice Proaño, «attraverso queste diverse forme di lavoro, assorbii spontaneamente il senso comunitario del lavoro».
L'abilità nel tessere cappelli gli rimase nel tempo e, anche una volta nominato vescovo, talvolta passava il tempo intrecciando paglia. L'umiltà nel disporsi al lavoro manuale si unisce poco a poco con la simpatia verso la gente semplice e alla solidarietà con i diseredati: «Ogni sabato, alla nostra casa, come alle case dei vicini, venivano a bussare persone bisognose, mendicanti. Per espressa disposizione dei miei, io ero incaricato di accoglierli, depositando nelle loro mani qualche piccola somma di denaro, o offrendo loro un piatto di minestra oppure dando loro un po' di viveri ancora da cucinare».
In questo ambiente familiare, profondamente cristiano ma nient'affatto “cucufato”, apprende il senso dell'onore, l'onestà, il gusto per la libertà, il coraggio e la calma nell'affrontare le difficoltà. Soprattutto impara a conoscere e a rispettare la popolazione indigena, che nella società ecuadoriana del tempo costituisce una classe a parte, la più sfruttata, i "paria" del luogo, vassalli disprezzati ed emarginati dalla società blanco-mestiza. Nella provincia di Imbabura, dove Proaño cresce, la situazione degli indios è meno drammatica che in altre zone del paese. Ma, in generale, gli anni Venti e Trenta sono terribili per i settori più poveri della società ecuadoriana. In tutto il paese si contano decine di sollevazioni di comunità indigene esasperate dalle condizioni di vita: a Guano, a Cubijìes, a Guamote, nel Chimborazo; a Pichibuela e a Cayambe, nel Pichincha; a Salasaca, nel Tungurahua; a Quinua Corrai e a Espino, nel Bolivar. Nel 1922 una grande manifestazione di lavoratori viene repressa nel sangue a Guayaquil. E nel 1930 un'altra protesta indigena, a Columbe e a Colta (Chimborazo), viene soffocata dall'esercito che spara sulla popolazione disarmata e compie una vera strage. Secondo lo studioso Moises Saenz, si conteranno circa tremila morti.
In questi anni, dall'ottobre 1923 all'estate del 1930, Leonidas Proaño compie gli studi secondari al seminario minore di Ibarra. Vi è entrato da "esterno", più su pressione del parroco di San Antonio che per un interesse reale per la vita religiosa. Quando ha una giornata libera, si fa a piedi i cinque chilometri di strada fino a San Antonio e va a dare una mano al padre. Coltiva il sogno di diventare pittore. In seminario ha incontrato figure stimabili di sacerdoti, in particolare alcuni religiosi lazzaristi francesi, suoi professori. Ma la Chiesa cattolica del tempo, così chiusa, conservatrice, moralista, paternalista e attaccata al potere, non ha grandi attrattive ai suoi occhi.
Nella sua autobiografia, Proaño racconta ancora: «II problema della scelta finale di un cammino per la mia vita mi si pose alla fine degli studi secondari. Passai per un'autentica crisi. Avevo avuto la buona - o cattiva -opportunità di ascoltare una conversazione in cui si parlava molto male di un sacerdote. Lo si descriveva come una persona con una grande voracità di denaro, molto attaccato alla bottiglia e anche con una forte inclinazione per le donne. La conversazione produsse nel mio animo una ripugnanza tale che il cammino di sacerdote mi apparve detestabile. Tornai a pensare alla pittura. [...] Qualunque lavoro manuale mi sarebbe piaciuto di più che diventare prete. Mi aveva preso una terribile angustia interiore. Non sapevo che fare. In questo stato d'animo terminai gli studi superiori e trascorsi metà delle vacanze. Era come se avessi una muraglia buia davanti agli occhi. Non vedevo chiaro. I miei genitori intuivano la mia preoccupazione e non riuscivano a dirmi altro se non ciò che mi avevano ripetuto tante volte: che dovevo sentirmi libero nella scelta della mia strada».
«Questa libertà risolveva il mio problema. Alla fine mi decisi e andai a Ibarra a parlare con uno dei sacerdoti miei professori, quello che mi ispirava più fiducia. Questo prete mi accolse calorosamente. E pur rispettando anch'egli la mia libertà, mi disse che potevo andare al seminario maggiore per approfondire lì i miei studi di filosofia e, intanto, riflettere se la strada del sacerdozio faceva per me. Sebbene la sua risposta non fosse stata definitiva, mi diede la forza per decidermi a entrare nel seminario maggiore. E in questo modo spiegai la cosa ai miei genitori. La crisi si risolse nei primi giorni della mia permanenza nel seminario. Posso affermare senza incertezza che in quei giorni scoprii il Signore in maniera chiara, profonda, esperienziale, soprattutto nella lettura della Bibbia e nel tabernacolo. Insieme a questa grande luce che mi inondò di gioia, si fece luce anche riguardo al mio cammino nella vita. Vidi che dovevo diventare prete. Me ne feci una convinzione profonda. Da allora, non ne ho mai dubitato. Mi aspettavano periodi molto duri di incomprensione, di lotta, di solitudine. Però ho visto che tutto ciò fa parte della vita sacerdotale, della missione cui ero stato chiamato. E, invece di indebolirmi, questi periodi mi hanno irrobustito e sono diventati persino motivo di allegria».
Entrato al seminario maggiore di Quito il primo ottobre 1930 per studiare filosofìa e teologia, Proaño riceve il diaconato il 7 marzo 1936 e tre mesi dopo, il 4 giugno 1936, viene ordinato sacerdote dal vescovo Carlos Maria de la Torre.
Vita da prete
La Chiesa ecuadoriana nella quale Leonidas Proaño si forma è una realtà chiusa; potente sia per i mezzi finanziari che ha a disposizione, sia per la considerazione sociale di cui gode; impregnata dall'idea romana di una "nuova cristianità" da costruire in terra.
Una volta archiviata la parentesi della rivoluzione alfarista - liberale e anticlericale -, le diocesi e gli ordini religiosi si erano andati riprendendo i privilegi e i latifondi parzialmente perduti.
Da seminarista, Proaño non si distacca molto - almeno apparentemente - dal modo di essere dei suoi compagni. È un giovane posato, silenzioso, poco portato alle baraonde studentesche, piuttosto freddo e rigido con le ragazze, ma anche ostinato, testardo, deciso a primeggiare nello studio. In lui, però, c'è sempre qualcosa che stona rispetto al clima conformista e irregimentato del seminario. Non ha pose da bacchettone. Gli piace il gioco e lo sport. Conserva la semplicità di chi viene da una famiglia povera e dà mostra di una sincerità disarmante. Scrive poesie. Insieme a un gruppetto di amici seminaristi, tra cui padre Agustìn Bravo (che poi sarà suo vicario generale a Riobamba), pubblica anche una rivistina che viene battezzata «Excelsior». Vi compaiono riflessioni, racconti, piccoli saggi. E poi legge molto, oltre le necessità strettamente scolastiche. Gli piacciono la filosofia, le scienze sociali e la teologia dogmatica. Si avventura spesso in letture considerate disdicevoli e pericolose per i seminaristi del tempo: le opere di padre Gratry, un oratoriano francese che propugna lo studio della scienza comparata; i libri di Ernesto Hello, molto di moda in quegli anni; i volumi di esegesi biblica del padre domenicano Albert Lagrange, grande studioso delle Scritture, che sostiene il metodo di analisi storico-critico ed è sospettato di modernismo.
Nel luglio 1936, a un mese dall'ordinazione sacerdotale (dunque appena rientrato alla diocesi di Ibarra), Proaño viene nominato cappellano dei fratelli delle scuole cristiane, che hanno un istituto in città, e professore del seminario minore "San Diego". A San Antonio torna spesso, soprattutto per tenere piccole conferenze di carattere sociale e religioso per il "centro culturale", che ha fondato qualche anno prima, coinvolgendo un gruppo di una trentina di giovani del paese. Ogni domenica sera c'è un incontro e il giovane curato parte da Ibarra a piedi, svolge la conferenza, e torna indietro a piedi.
Una di queste domeniche sere succede un episodio rivelatore della personalità di quello che sarà poi "il vescovo degli indios". «Incontrai giovani del Centro e tutti gli abitanti del paese molto inquieti per un problema» racconta Proaño. «Il paese era semicircondato da una grande fattoria. Tra l'altro, parte di questa hacienda era costituita da appezzamenti che in origine erano terreni comunali del paese. I giovani e gli altri abitanti di San Antonio volevano espropriare una parte di questo fondo. Mi consultarono per chiedermi se si poteva o non si poteva fare questo, secondo la dottrina della Chiesa».
«Chiesi otto giorni di tempo per dar loro una risposta. L'enciclica sociale su cui potevamo contare a quel tempo era la Rerum novarum di Leone XIII. Sulla base di questa enciclica, elaborai una conferenza che metteva in risalto la possibilità di espropriazione dell''hacienda. Quando, la domenica successiva, andai a tenere la conferenza, la popolazione si era raccolta in numero cosi grande che fu necessario riunirci nel patio (cortile, ndr) della casa parrocchiale. Le riflessioni che esposi non caddero nel vuoto. Subito la gente si mise in moto per fare le pratiche, presentandosi direttamente al proprietario della tenuta. Il proprietario andò a lagnarsi dal vescovo. Il signor vescovo, prudentemente, non mi disse nulla all'inizio; però trovò poi la maniera per farmi vedere con le buone che non mi conveniva impicciarmi in queste questioni, aggiungendo che una petizione simile rappresentava un attentato contro la proprietà privata».
Il giovane prete non è facile da inquadrare: per metà sacerdote convenzionale, in sottana lunga, serio e devoto; per l'altra metà imprevedibilmente "bombarolo", aperto al nuovo, fin troppo amichevole con i diseredati, che fa quasi scandalo quando dice «voglio arrivare a essere parroco degli indios».
Non è solo, però. A Ibarra stringe rapporti con altri tre giovani preti, vecchi amici del seminario minore. Uno, Carlos Suàrez Veintimilla, ha studiato a Roma; gli altri due a Quito, come Proaño. Li chiamano "il Quadrilatero" perché sono legatissimi e girano sempre insieme. L'amicizia diventa anche ricerca spirituale comune. Si riuniscono una volta alla settimana, a turno a casa di ognuno. Una volta al mese organizzano un ritiro di preghiera e di riflessione: meditazione, discussione, poi gita in campagna a leggere e a commentare qualche libro. Lo chiamano "il giorno del pascolo".
Il vescovo di Ibarra, monsignor Cèsar Antonio Mosquera, stima Proaño e gli altri tre entusiasti pretini del "Quadrilatero". E li valorizza. In tutte le diocesi dell'Ecuador è in corso un grande sforzo per dare vita ai vari rami dell'Azione cattolica. A Ibarra il vescovo affida a Proano l'incarico di organizzare l'Azione cattolica degli uomini. Monsignor Mosquera, poi, prende a compiere visite pastorali in tutte le paroquias della diocesi. E si porta appresso i giovani sacerdoti.
Ma al "Quadrilatero" tutto questo non è sufficiente. Grazie a Wilfrido Barrerà, un amico sacerdote conosciuto nel seminario di Quito, che è poi andato a studiare in Francia, Proaño riceve una serie di libri sulla JOC, la Gioventù operaia cattolica fondata nel 1925 in Belgio dal canonico Joseph Cardijn, e si innamora di questa esperienza. Anche Carlo Suàrez Veintimilla torna dagli studi compiuti a Roma con una grande ammirazione per la JOC. Insieme si mettono a organizzarne un gruppo a Ibarra. Contemporaneamente, e con l'approvazione del vescovo, gli altri due sacerdoti del "Quadrilatero" si dedicano a promuovere un movimento di organizzazioni operaie nelle province di Imbabura e Carchi, il cui territorio fa parte della diocesi di Ibarra.
«Il movimento jocista» spiega Proaño nella sua autobiografia, «fu per me un'altra forte esperienza di gruppo. Qui imparai a rispettare i modi di pensare diversi dal mio. Soprattutto, imparai il suo metodo: vedere, giudicare, agire. Un metodo che si fece carne dentro di me». Vedere la realtà vuoi dire analizzarla in profondità, scoprirne le radici, verificarne le cause. Dopo bisogna giudicarla, cioè "leggerla" alla luce della parola di Dio, stabilire una comparazione tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, tra la realtà e il "piano di Dio". Per ultimo, occorre agire, che vuoi dire prendere decisioni e impegni per cambiare questa realtà in modo che sia più corrispondente al messaggio evangelico. Aggiunge Proaño: «Quando, in questi ultimi anni, sono stato definito calunniosamente comunista e marxista, mi è venuto da pensare a questi lontani insegnamenti del metodo jocista. I miei detrattori non hanno alcuna ragione di accusarmi. In realtà, essi ignorano che è da molti anni che mi sono fatto l'abitudine di conoscere la realtà e di analizzarla, per arrivare, attraverso la riflessione, a veri impegni per il cambiamento. Papa Giovanni XXIII è giunto a canonizzare in qualche modo questo metodo».
Poco a poco, la figura di Proaño comincia a spiccare tra il clero ibarrense. Il "Quadrilatero", di cui diventa il leader riconosciuto pur non avendo cercato alcuna investitura, crea un grande movimento cattolico operaio che coinvolge giovani e adulti. Insieme a Carlos Suàrez Veintimilla, dà vita a un'altro progetto: la libreria cattolica Cardijn, battezzata così in onore del fondatore della JOC. I due ottengono un prestito di 5 mila sucres, trovano un locale, inviano i primi ordini di libri alla Editorial Difùsión di Buenos Aires e nell'ottobre 1941 la Cardijn è una realtà. Per mandarla avanti trovano un giovane della JOC, Rubén Veloz, che lavorava nella bottega di un sarto, e mano a mano che il lavoro cresce – ne coinvolgono altri. Attorno alla libreria cattolica, una novità per Ibarra, si crea un giro di giovani che studiano e che riflettono sulla loro fede. I preti del “Quadrilatero” si occupano di seguirli. Organizzano anche escursioni in alta montagna e piccole scalate. Poi è la volta di una nuovas impresa, il settimanale cattolico. Dopo molti progetti, preoccupazioni, esitazioni, il 14 maggio 1944 nasce “La Verdad”, periodico cattolico senza schiavitù partitiche e senza legami con interssi meschini. L’editoriale del primo numero de “La Verdad” (che nel 1952 diventerà quotidiano) comincia così:
“A qualcuno che vedesse il nostro settimanale, potrebbe apparire pretenzioso il titolo che porta. Potrebbe credere che ci presentiamo al pubblico con un'aria da maestri infallibili. Non è questo, senza dubbio, il nostro atteggiamento. Partiamo da un punto più profondo, più sincero, più umile: partiamo dalla nostra condizione di indigenti, andiamo in cerca della verità, come l'assetato in cerca dell'acqua, come l'uccello in cerca degli spazi aperti, come il fiore in cerca della luce”.
La Cardijn, in questo modo, cresce e si trasforma: non soltanto libreria, ma anche casa editrice e tipografia, che da lavoro a giovani librai, stampatori, giornalisti.
Il 2 agosto 1947 Proaño viene nominato canonico di Ibarra e tre anni dopo canonico penitenziere, incarichi ecclesiastici oggi caduti in disuso ma, a quei tempi, di grande prestigio. Proaño è ormai un uomo totalmente dedito alla Chiesa e alle "opere" che ha messo in piedi nella diocesi. La sua famiglia, dopo la morte della madre nel 1945 (il padre era scomparso dieci anni prima), sono i ragazzi della Cardijn e i preti del "Quadrilatero".
Per l'Ecuador, gli anni Quaranta sono tempi di crisi e conflitti. Le esportazioni di cacao, che erano state all'origine del boom degli anni 1910-20, diminuiscono. Il modello economico "agro-esportatore" è ancora vincente ma si prepara una forte ristrutturazione delle coltivazioni: è la volta delle piantagioni di banane, che vanno coprendo gran parte delle terre fertili della fascia costiera. Nel 1941, mentre a Quito governa il presidente Carlos Arroyo del Rio, un liberale debole e corrotto, l'esercito peruviano invade l'Ecuador e occupa gran parte dell'area amazzonica, che viene annessa al paese confinante l'anno successivo con il Protocollo di Rio de Janeiro. I nuovi confini, che tolgono all'Ecuador 120 mila chilometri quadrati di territorio nazionale, saranno occasione di continue polemiche politiche e di sporadiche scaramucce belliche fino ai giorni nostri (si veda il caso del breve conflitto della cordigliera del Condor del gennaio 1996).
Nel maggio del 1944 si scatena una rivolta contro i liberali che riporta al potere José Maria Velasco Ibarra, che era stato eletto presidente per la prima volta nel 1933. Il caudillismo velasquista, che tra alterne vicende dominerà la scena politica fino agli anni Settanta, è un fenomeno politico di stampo populista, espressione dell'ascesa di una nuova oligarchia mercantile costeña.
Il cambiamento di regime politico, la fine della seconda guerra mondiale in Europa e il crollo della produzione di banane nel Centroamerica dovuto a un'epidemia che distrugge le piantagioni, pongono le basi per un altro boom economico in Ecuador: i ricavi per le esportazioni di banane passano da 2 milioni di dollari del 1948 a 17 milioni nel 1950. Si apre una stagione di massicci investimenti nordamericani, con la United Fruit Company che conquista il ruolo di monopolista e acquisisce il controllo su vaste zone di territorio.
In compenso, la situazione economica dei contadini della Sierra si fa più precaria: la "repubblica delle banane" non ha bisogno di patate o mais. Qua e là proseguono le sollevazioni di comunità quechua, soprattutto nel ‘pàramo’ (la zona andina superiore ai 4000 metri, fredda e arida, con vegetazione scarsa, ndr.). Nascono anche le prime organizzazioni indigene, che danno vita al FEI (Federazione ecuadoriana degli indios).
È in questo clima, di grande euforia e vecchi conflitti sociali, che il 18 marzo 1954 viene pubblicata ufficialmente la notizia della nomina di Leonidas Eduardo Proaño Villalba a vescovo della diocesi di Bolivar (più avanti il nome cambierà e diventerà diocesi di Riobamba).
Come si arrivò alla scelta di Proano? Chi furono i suoi "grandi elettori"? Padre Agustìn Bravo sottolinea: «Proaño non si aspettava la nomina. Non l'aveva cercata, e a tutto pensava, fuorché alla possibilità di essere fatto vescovo. Dio, però, ha le sue strade. In questo caso ha usato la via tradizionale. Di solito, infatti, sono i vescovi che fanno gli altri vescovi. E chiaramente li fanno a propria immagine e somiglianza. Per Proaño ebbero un ruolo-chiave due benemeriti prelati ecuadoriani: in primo luogo, monsignor Ordonez Crespo, che inizialmente era stato vescovo di Ibarra (dove aveva conosciuto il giovane Leonidas) e poi era stato trasferito a Riobamba. In secondo luogo, monsignor Cèsar Antonio Mosquera, che da principio era stato parroco di San Luis e di Sicalpa, nel Chimborazo, e aveva dimostrato un grande amore per gli indios; poi era diventato vicario generale di Ordonez Crespo a Riobamba; e infine era stato promosso vescovo di Ibarra. Furono, dunque, loro due a sponsorizzare la candidatura di Proaño».
Il 26 maggio 1954, all'età di 44 anni, Proaño viene consacrato vescovo nella cattedrale di Ibarra.
I celebranti sull'altare sono tre: il suo mentore, monsignor Cèsar Antonio Mosquera; il nunzio apostolico dell'epoca, monsignor Opilio Rossi; e monsignor Bernardino Echeverrìa, francescano originario della diocesi di Ibarra, a quel tempo vescovo della piccola diocesi di Ambato, ma già allora lanciato in quella che sarà una lunga - e a volte discussa - carriera ecclesiastica.
Una volta archiviata la parentesi della rivoluzione alfarista - liberale e anticlericale -, le diocesi e gli ordini religiosi si erano andati riprendendo i privilegi e i latifondi parzialmente perduti.
Da seminarista, Proaño non si distacca molto - almeno apparentemente - dal modo di essere dei suoi compagni. È un giovane posato, silenzioso, poco portato alle baraonde studentesche, piuttosto freddo e rigido con le ragazze, ma anche ostinato, testardo, deciso a primeggiare nello studio. In lui, però, c'è sempre qualcosa che stona rispetto al clima conformista e irregimentato del seminario. Non ha pose da bacchettone. Gli piace il gioco e lo sport. Conserva la semplicità di chi viene da una famiglia povera e dà mostra di una sincerità disarmante. Scrive poesie. Insieme a un gruppetto di amici seminaristi, tra cui padre Agustìn Bravo (che poi sarà suo vicario generale a Riobamba), pubblica anche una rivistina che viene battezzata «Excelsior». Vi compaiono riflessioni, racconti, piccoli saggi. E poi legge molto, oltre le necessità strettamente scolastiche. Gli piacciono la filosofia, le scienze sociali e la teologia dogmatica. Si avventura spesso in letture considerate disdicevoli e pericolose per i seminaristi del tempo: le opere di padre Gratry, un oratoriano francese che propugna lo studio della scienza comparata; i libri di Ernesto Hello, molto di moda in quegli anni; i volumi di esegesi biblica del padre domenicano Albert Lagrange, grande studioso delle Scritture, che sostiene il metodo di analisi storico-critico ed è sospettato di modernismo.
Nel luglio 1936, a un mese dall'ordinazione sacerdotale (dunque appena rientrato alla diocesi di Ibarra), Proaño viene nominato cappellano dei fratelli delle scuole cristiane, che hanno un istituto in città, e professore del seminario minore "San Diego". A San Antonio torna spesso, soprattutto per tenere piccole conferenze di carattere sociale e religioso per il "centro culturale", che ha fondato qualche anno prima, coinvolgendo un gruppo di una trentina di giovani del paese. Ogni domenica sera c'è un incontro e il giovane curato parte da Ibarra a piedi, svolge la conferenza, e torna indietro a piedi.
Una di queste domeniche sere succede un episodio rivelatore della personalità di quello che sarà poi "il vescovo degli indios". «Incontrai giovani del Centro e tutti gli abitanti del paese molto inquieti per un problema» racconta Proaño. «Il paese era semicircondato da una grande fattoria. Tra l'altro, parte di questa hacienda era costituita da appezzamenti che in origine erano terreni comunali del paese. I giovani e gli altri abitanti di San Antonio volevano espropriare una parte di questo fondo. Mi consultarono per chiedermi se si poteva o non si poteva fare questo, secondo la dottrina della Chiesa».
«Chiesi otto giorni di tempo per dar loro una risposta. L'enciclica sociale su cui potevamo contare a quel tempo era la Rerum novarum di Leone XIII. Sulla base di questa enciclica, elaborai una conferenza che metteva in risalto la possibilità di espropriazione dell''hacienda. Quando, la domenica successiva, andai a tenere la conferenza, la popolazione si era raccolta in numero cosi grande che fu necessario riunirci nel patio (cortile, ndr) della casa parrocchiale. Le riflessioni che esposi non caddero nel vuoto. Subito la gente si mise in moto per fare le pratiche, presentandosi direttamente al proprietario della tenuta. Il proprietario andò a lagnarsi dal vescovo. Il signor vescovo, prudentemente, non mi disse nulla all'inizio; però trovò poi la maniera per farmi vedere con le buone che non mi conveniva impicciarmi in queste questioni, aggiungendo che una petizione simile rappresentava un attentato contro la proprietà privata».
Il giovane prete non è facile da inquadrare: per metà sacerdote convenzionale, in sottana lunga, serio e devoto; per l'altra metà imprevedibilmente "bombarolo", aperto al nuovo, fin troppo amichevole con i diseredati, che fa quasi scandalo quando dice «voglio arrivare a essere parroco degli indios».
Non è solo, però. A Ibarra stringe rapporti con altri tre giovani preti, vecchi amici del seminario minore. Uno, Carlos Suàrez Veintimilla, ha studiato a Roma; gli altri due a Quito, come Proaño. Li chiamano "il Quadrilatero" perché sono legatissimi e girano sempre insieme. L'amicizia diventa anche ricerca spirituale comune. Si riuniscono una volta alla settimana, a turno a casa di ognuno. Una volta al mese organizzano un ritiro di preghiera e di riflessione: meditazione, discussione, poi gita in campagna a leggere e a commentare qualche libro. Lo chiamano "il giorno del pascolo".
Il vescovo di Ibarra, monsignor Cèsar Antonio Mosquera, stima Proaño e gli altri tre entusiasti pretini del "Quadrilatero". E li valorizza. In tutte le diocesi dell'Ecuador è in corso un grande sforzo per dare vita ai vari rami dell'Azione cattolica. A Ibarra il vescovo affida a Proano l'incarico di organizzare l'Azione cattolica degli uomini. Monsignor Mosquera, poi, prende a compiere visite pastorali in tutte le paroquias della diocesi. E si porta appresso i giovani sacerdoti.
Ma al "Quadrilatero" tutto questo non è sufficiente. Grazie a Wilfrido Barrerà, un amico sacerdote conosciuto nel seminario di Quito, che è poi andato a studiare in Francia, Proaño riceve una serie di libri sulla JOC, la Gioventù operaia cattolica fondata nel 1925 in Belgio dal canonico Joseph Cardijn, e si innamora di questa esperienza. Anche Carlo Suàrez Veintimilla torna dagli studi compiuti a Roma con una grande ammirazione per la JOC. Insieme si mettono a organizzarne un gruppo a Ibarra. Contemporaneamente, e con l'approvazione del vescovo, gli altri due sacerdoti del "Quadrilatero" si dedicano a promuovere un movimento di organizzazioni operaie nelle province di Imbabura e Carchi, il cui territorio fa parte della diocesi di Ibarra.
«Il movimento jocista» spiega Proaño nella sua autobiografia, «fu per me un'altra forte esperienza di gruppo. Qui imparai a rispettare i modi di pensare diversi dal mio. Soprattutto, imparai il suo metodo: vedere, giudicare, agire. Un metodo che si fece carne dentro di me». Vedere la realtà vuoi dire analizzarla in profondità, scoprirne le radici, verificarne le cause. Dopo bisogna giudicarla, cioè "leggerla" alla luce della parola di Dio, stabilire una comparazione tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, tra la realtà e il "piano di Dio". Per ultimo, occorre agire, che vuoi dire prendere decisioni e impegni per cambiare questa realtà in modo che sia più corrispondente al messaggio evangelico. Aggiunge Proaño: «Quando, in questi ultimi anni, sono stato definito calunniosamente comunista e marxista, mi è venuto da pensare a questi lontani insegnamenti del metodo jocista. I miei detrattori non hanno alcuna ragione di accusarmi. In realtà, essi ignorano che è da molti anni che mi sono fatto l'abitudine di conoscere la realtà e di analizzarla, per arrivare, attraverso la riflessione, a veri impegni per il cambiamento. Papa Giovanni XXIII è giunto a canonizzare in qualche modo questo metodo».
Poco a poco, la figura di Proaño comincia a spiccare tra il clero ibarrense. Il "Quadrilatero", di cui diventa il leader riconosciuto pur non avendo cercato alcuna investitura, crea un grande movimento cattolico operaio che coinvolge giovani e adulti. Insieme a Carlos Suàrez Veintimilla, dà vita a un'altro progetto: la libreria cattolica Cardijn, battezzata così in onore del fondatore della JOC. I due ottengono un prestito di 5 mila sucres, trovano un locale, inviano i primi ordini di libri alla Editorial Difùsión di Buenos Aires e nell'ottobre 1941 la Cardijn è una realtà. Per mandarla avanti trovano un giovane della JOC, Rubén Veloz, che lavorava nella bottega di un sarto, e mano a mano che il lavoro cresce – ne coinvolgono altri. Attorno alla libreria cattolica, una novità per Ibarra, si crea un giro di giovani che studiano e che riflettono sulla loro fede. I preti del “Quadrilatero” si occupano di seguirli. Organizzano anche escursioni in alta montagna e piccole scalate. Poi è la volta di una nuovas impresa, il settimanale cattolico. Dopo molti progetti, preoccupazioni, esitazioni, il 14 maggio 1944 nasce “La Verdad”, periodico cattolico senza schiavitù partitiche e senza legami con interssi meschini. L’editoriale del primo numero de “La Verdad” (che nel 1952 diventerà quotidiano) comincia così:
“A qualcuno che vedesse il nostro settimanale, potrebbe apparire pretenzioso il titolo che porta. Potrebbe credere che ci presentiamo al pubblico con un'aria da maestri infallibili. Non è questo, senza dubbio, il nostro atteggiamento. Partiamo da un punto più profondo, più sincero, più umile: partiamo dalla nostra condizione di indigenti, andiamo in cerca della verità, come l'assetato in cerca dell'acqua, come l'uccello in cerca degli spazi aperti, come il fiore in cerca della luce”.
La Cardijn, in questo modo, cresce e si trasforma: non soltanto libreria, ma anche casa editrice e tipografia, che da lavoro a giovani librai, stampatori, giornalisti.
Il 2 agosto 1947 Proaño viene nominato canonico di Ibarra e tre anni dopo canonico penitenziere, incarichi ecclesiastici oggi caduti in disuso ma, a quei tempi, di grande prestigio. Proaño è ormai un uomo totalmente dedito alla Chiesa e alle "opere" che ha messo in piedi nella diocesi. La sua famiglia, dopo la morte della madre nel 1945 (il padre era scomparso dieci anni prima), sono i ragazzi della Cardijn e i preti del "Quadrilatero".
Per l'Ecuador, gli anni Quaranta sono tempi di crisi e conflitti. Le esportazioni di cacao, che erano state all'origine del boom degli anni 1910-20, diminuiscono. Il modello economico "agro-esportatore" è ancora vincente ma si prepara una forte ristrutturazione delle coltivazioni: è la volta delle piantagioni di banane, che vanno coprendo gran parte delle terre fertili della fascia costiera. Nel 1941, mentre a Quito governa il presidente Carlos Arroyo del Rio, un liberale debole e corrotto, l'esercito peruviano invade l'Ecuador e occupa gran parte dell'area amazzonica, che viene annessa al paese confinante l'anno successivo con il Protocollo di Rio de Janeiro. I nuovi confini, che tolgono all'Ecuador 120 mila chilometri quadrati di territorio nazionale, saranno occasione di continue polemiche politiche e di sporadiche scaramucce belliche fino ai giorni nostri (si veda il caso del breve conflitto della cordigliera del Condor del gennaio 1996).
Nel maggio del 1944 si scatena una rivolta contro i liberali che riporta al potere José Maria Velasco Ibarra, che era stato eletto presidente per la prima volta nel 1933. Il caudillismo velasquista, che tra alterne vicende dominerà la scena politica fino agli anni Settanta, è un fenomeno politico di stampo populista, espressione dell'ascesa di una nuova oligarchia mercantile costeña.
Il cambiamento di regime politico, la fine della seconda guerra mondiale in Europa e il crollo della produzione di banane nel Centroamerica dovuto a un'epidemia che distrugge le piantagioni, pongono le basi per un altro boom economico in Ecuador: i ricavi per le esportazioni di banane passano da 2 milioni di dollari del 1948 a 17 milioni nel 1950. Si apre una stagione di massicci investimenti nordamericani, con la United Fruit Company che conquista il ruolo di monopolista e acquisisce il controllo su vaste zone di territorio.
In compenso, la situazione economica dei contadini della Sierra si fa più precaria: la "repubblica delle banane" non ha bisogno di patate o mais. Qua e là proseguono le sollevazioni di comunità quechua, soprattutto nel ‘pàramo’ (la zona andina superiore ai 4000 metri, fredda e arida, con vegetazione scarsa, ndr.). Nascono anche le prime organizzazioni indigene, che danno vita al FEI (Federazione ecuadoriana degli indios).
È in questo clima, di grande euforia e vecchi conflitti sociali, che il 18 marzo 1954 viene pubblicata ufficialmente la notizia della nomina di Leonidas Eduardo Proaño Villalba a vescovo della diocesi di Bolivar (più avanti il nome cambierà e diventerà diocesi di Riobamba).
Come si arrivò alla scelta di Proano? Chi furono i suoi "grandi elettori"? Padre Agustìn Bravo sottolinea: «Proaño non si aspettava la nomina. Non l'aveva cercata, e a tutto pensava, fuorché alla possibilità di essere fatto vescovo. Dio, però, ha le sue strade. In questo caso ha usato la via tradizionale. Di solito, infatti, sono i vescovi che fanno gli altri vescovi. E chiaramente li fanno a propria immagine e somiglianza. Per Proaño ebbero un ruolo-chiave due benemeriti prelati ecuadoriani: in primo luogo, monsignor Ordonez Crespo, che inizialmente era stato vescovo di Ibarra (dove aveva conosciuto il giovane Leonidas) e poi era stato trasferito a Riobamba. In secondo luogo, monsignor Cèsar Antonio Mosquera, che da principio era stato parroco di San Luis e di Sicalpa, nel Chimborazo, e aveva dimostrato un grande amore per gli indios; poi era diventato vicario generale di Ordonez Crespo a Riobamba; e infine era stato promosso vescovo di Ibarra. Furono, dunque, loro due a sponsorizzare la candidatura di Proaño».
Il 26 maggio 1954, all'età di 44 anni, Proaño viene consacrato vescovo nella cattedrale di Ibarra.
I celebranti sull'altare sono tre: il suo mentore, monsignor Cèsar Antonio Mosquera; il nunzio apostolico dell'epoca, monsignor Opilio Rossi; e monsignor Bernardino Echeverrìa, francescano originario della diocesi di Ibarra, a quel tempo vescovo della piccola diocesi di Ambato, ma già allora lanciato in quella che sarà una lunga - e a volte discussa - carriera ecclesiastica.
Sobbalzando sui morbidi sedili di una mastodontica Buick nuova fiammante, il 29 maggio 1954 monsignor Leonidas Proaño arriva a Riobamba per prendere possesso della diocesi.
All'ingresso della città, il corteo di auto che accompagnano il vescovo rallenta. Sulla strada lastricata di pietre si accalca la folla delle grandi occasioni, venuta a ricevere con tutti gli onori il nuovo prelato. Ci sono le autorità civili, militari ed ecclesiastiche. Gli alunni del collegio "San Felipe", retto dai padri gesuiti, sfoggiano la divisa da cadetti, con tanto di banda militare e bandiera al vento. Il vescovo, affacciato al finestrino a benedire, sembra un vero principe della Chiesa: mantella, fascia e zucchetto viola, una pesante croce pettorale che ondeggia su e giù, al ritmo delle buche sul fondo stradale, e un paio di occhialini tondi sul naso che gli danno un'aria molto "pacelliana". Lo scenario di questo trionfale ingresso, però, viene turbato per un attimo da un imprevisto che ha qualcosa di profetico. Tra le due ali di folla si fa largo una piccola figura cenciosa: è un indio, sporco in viso e coperto da un poncho smandrappato, che si avvicina al finestrino dell'auto e, rivolto al vescovo, lancia uno stupefacente grido di giubilo: «Por fin has venido, taita-amito!».
Le parole di questo sconosciuto indio («alla fine sei arrivato, papa-padroncino») risuoneranno per molto tempo nelle orecchie di Proano. Taita-amito è l'appellativo con cui i quechua chiamano i parroci delle comunità indigene. Da una parte, dunque, l'esclamazione mostra un affetto sproporzionato e anche un po' assurdo nei confronti del vescovo diocesano, un'autorità fino ad allora distante, ieratica, avvolta da nuvole d'incenso. D'altra parte, la frase mette a nudo, in poche parole, la dura realtà di cui sono fatte le relazioni tra la potente Chiesa cattolica del tempo e le poverissime comunità indigene del paese, e della provincia del Chimborazo in particolare.
Per comprendere la situazione, occorre fare un rapido excursus storico.
L'Ecuador diviene indipendente nel 1830. La Costituzione repubblicana del tempo proclama che «la religione cattolica è la religione di Stato» e aggiunge che «è un dovere del governo, nell'esercizio del patronato, proteggerla attraverso l'esclusione di qualsiasi altra». L'articolo 68, inoltre, nomina i parroci «tutori e padri naturali dell'innocente, abietta e miserevole razza indigena». In questo modo, la Repubblica raccoglie e formalizza la triste eredità coloniale. Dalla Conquista del 1492 in avanti, la Chiesa è stata un pilastro della dominazione spagnola sulle popolazioni indigene. Da queste parti non ci sono state figure come Bartolomé de las Casas o Antonio de Montesinos. Il catechismo che i curas doctrineros insegnano, spesso ricorrendo all'appoggio del braccio secolare, assomiglia più che altro a un pantheon pagano: in cima a tutto c'è Dio, la cui immagine è quella di un grande latifondista, Amo Bendilo, padrone benedetto del ciclo e della terra; subito dopo ci sono gli altri amos, i padroni delle terre e delle haciendas, i latifondisti; dopo ancora ci sono i taita-amitos, i preti, cui bisogna rivolgere la parola solo dopo essersi inginocchiati e aver biascicato Yalabado, il mottetto in lode del Santissimo Sacramento.
Bisogna aspettare gli anni Sessanta del nostro secolo per veder cambiare un po' le cose: nel 1964, una legge di riforma agraria abolisce il huasipungo, il sistema feudale in base al quale i contadini che lavorano nei latifondi (spesso di proprietà di enti ecclesiastici) non vengono retribuiti con un salario, ma con l'usufrutto di un modestissimo appczzamento della terra peggiore, da cui debbono cavare il proprio sostentamento. Sul versan¬te ecclesiale, è solo il Concilio a buttare a mare certe vecchie tradizioni feudali che hanno messo radici nella Chiesa ecuadoriana. Fino ad allora, gli indios pagano le decime alla Chiesa prima di ogni confessione e prima della comunione il giorno di Pasqua; al parroco devono offrire le primizie del raccolto; spesso sono chiamati a delle mitas, lavori obbligatori per la costruzione, ad esempio, di una cappella o di un convento; infine, ogni servizio religioso, dal battesimo al funerale, ha una sua tariffa che, nei casi convenienti, può essere anche pagata in natura.
Questa, grosso modo, è la situazione che trova Leonidas Proaño al suo ingresso in diocesi. Una situazione in cui, come dice padre Agustìn Bravo, gli indios erano «proprietà privata della Chiesa, il nostro latifondo pastorale». Proaño come reagisce? Colui che voleva arrivare a essere il parroco degli indios si ritrova vescovo della diocesi con la maggiore percentuale di indigeni nell'Ecuador, nella zona più impoverita e arida del paese. Si sente profondamente interpellato. Scandalizzato da ciò che vede, è spinto a riflettere e a tirarsi su le maniche.
Alcuni mesi dopo l'ingresso a Riobamba, il professor Roberto Morales Almeida, suo vecchio insegnante di Ibarra, gli scrive, spronandolo a scrivere una lettera pastorale sugli indios. La risposta di Proaño, datata 10 ottobre 1954, vale la pena di essere riportata quasi integralmente:
“Lei mi chiede quando scriverò una lettera pastorale sugli indios? Quando potrò concretizzare un obiettivo e trasformare in opere i miei sogni. Non voglio semplicemente aumentare la letteratura sull'indio. A che prò? Quando potrò dire: «Faremo questo in loro favore», allora scriverò. Credo però che questo giorno tarderà, perché il problema dell'indio è complesso e formidabile, e non c'è modo di dargli soluzioni parziali, né io lo voglio. Se ci lamentiamo della situazione dell'indio in altre province, che dire della sua situazione nel Chimborazo? È da piangere. Vestono di nero o di grigio. Non portano i colori vivaci degli indios di Imbabura. Hanno un aspetto sudicio, ripugnante. Non si lavano mai. Con i capelli tutti arruffati davanti alla faccia, non gli resta neppure mezzo dito di fronte. Mi creda: molte volte non ho neppure dove fare l'unzione in occasione delle cresime. Neri e cariati i denti. La loro voce sembra un lamento. Hanno uno sguardo da cani maltrattati. Vivono - Signore, come vivono! - in capanne della grandezza di una tenda da campeggio, o come topi, in buche scavate nella terra. Sfruttati senza misericordia dai grandi milionari della provincia che, dopo aver venduto i loro raccolti, se la svignano a Quito, a Guayaquil, nelle grandi città dell'America o dell'Europa, a buttare via il denaro spremuto da questo miserabile straccio che è l'indio del Chimborazo. Quando vedo questo, mi sento un peso sul cuore e intuisco l'opera formidabile che è il problema della sua redenzione”.
Proaño, poi, racconta al professor Morales che nella diocesi si contano circa 160 mila indios, al cui confronto «gli indios di Imbabura sono signori». E conclude: «Io vorrei dare all'indio coscienza della sua personalità umana, terre, libertà, cultura, religione... Come ottenere tutto questo? Quando ci penso, mi si crea il buio nella testa. Ma non voglio perdermi d'animo».
Non si perderà d'animo, monsignor Proaño. I primi anni li dedicò soprattutto a visitare la diocesi, villaggio per villaggio, viaggiando in auto o, dove non arrivava l'auto, a cavallo o a piedi. Queste visite pastorali, che compie prendendo a modello lo stile del vescovo di Ibarra, Cèsar Mosquera, sono assai istruttive, per non dire scioccanti. Di fronte agli indios del pàramo (che per rispetto gli danno la mano "incartandola" nel poncho, in modo da non sporcare la sua mano di vescovo con le loro di campesinos) rimane senza parole. Ma non è ancora il tempo delle innovazioni pastorali.
Proaño vive una trasformazione interiore lenta, senza miracolose "conversioni" o bruschi cambiamenti di rotta. In questa prima fase, dunque, è ancora per molti aspetti un vescovo tradizionale. Nelle sue visite pastorali, ad esempio, veste sempre in abiti ecclesiastici "protocollari", con fascia viola e mozzetta. Dedica molti sforzi al mantenimento del prestigio della cattedrale della città. Incoraggia l'attività delle associazioni che esprimono una pietà tradizionale, come la Legio Mariae. Si preoccupa della difesa dei diritti della Chiesa e dei buoni costumi. Cerca, soprattutto, di aumentare il numero delle vocazioni sacerdotali, tipica cartina di tornasole dell'operato di quello che allora veniva considerato un buon vescovo. Non a caso, come primo atto ufficiale, il 15 agosto 1954, scrive una lettera pastorale in cui preannuncia la fondazione del seminario minore, di cui la diocesi era sprovvista, e che verrà battezzato "La Dolorosa".
Insomma, Proaño è un po' bruco e un po' farfalla. Sta maturando grandi cambiamenti, ma non se ne vedono ancora i risultati. Nel 1955 fonda la rivista diocesana «Mensaje», che rimarrà in vita fino al 1961, su cui tiene una rubrica di colloqui con i fedeli intitolata "Conversazioni con i miei figli".
Sull'onda della prima Conferenza dei vescovi latinoamericani, che si tiene a Rio de Janeiro nel 1955, il vescovo di Riobamba lancia un "piano pastorale" diocesano che, accanto ad aspetti decisamente tradizionali (per esempio, l'impegno contro la propaganda laicista e socialista, o la promozione delle vocazioni al sacerdozio), presenta alcune novità interessanti: innanzitutto, il metodo complessivo, di ispirazione jocista, che prevede come primo passo la «conoscenza della realtà»; e poi l'attenzione al mondo indigeno delle campagne, sfruttato e analfabeta, nonché alcuni abbozzi di idee che verranno sviluppate più avanti, come la creazione di comunità di lavoro o di cooperative contadine.
Nel 1958 ospita a Riobamba l'abbé Pierre, già molto noto in Francia per le sue battaglie in favore dei diseredati e dei senzatetto: incontro che avrà un certo influsso su Proaño. Sempre nel 1958 dedica la sua terza lettera pastorale (la seconda, sulla quaresima, è del 1957) al tema della politica: un documento molto netto in cui attacca i partiti che esprimono posizioni contrarie alla dottrina della Chiesa (i liberali, in particolare) ed esprime un velato appoggio al partito conservatore ecuadoriano, espressione dell'oligarchia latifondista della Sierra.
Qualche mese dopo questa lettera così tradizionale, però, monsignor Proaño fonda un'opera che provoca mormorii tra i potenti della provincia.
Il 14 maggio 1958 nasce la Casa indigena "Nuestra Senora de Guadalupe", affidata alle cure delle suore missionarie laurite. È l'inizio della pastorale campesina.
Il progetto ha vari obiettivi: far sì che nelle comunità indigene nascano dei ministri della parola autoctoni, creare una coscienza critica cristiana sulla difficile realtà del mondo contadino, allargare la mentalità indigena, aprendola alla modernità ma «senza detrimento dei loro propri valori culturali». L'iniziativa, che nasce in collaborazione con la OIT (Organizzazione internazionale del lavoro) e con la Mission andina, è assolutamente nuova per l'Ecuador. Ed è un passo concreto di Proaño verso il mondo quechua del Chimborazo.
In tutta la sua vita, monseñor scriverà soltanto quattro lettere pastorali, l'ultima nel 1961.
Nessuna di queste sarà dedicata agli indios.
La richiesta del professor Morales, dunque, rimarrà insoddisfatta.
Ma le iniziative che d'ora in avanti prenderanno avvio da questa piccola città andina valgono quanto un'enciclica.
All'ingresso della città, il corteo di auto che accompagnano il vescovo rallenta. Sulla strada lastricata di pietre si accalca la folla delle grandi occasioni, venuta a ricevere con tutti gli onori il nuovo prelato. Ci sono le autorità civili, militari ed ecclesiastiche. Gli alunni del collegio "San Felipe", retto dai padri gesuiti, sfoggiano la divisa da cadetti, con tanto di banda militare e bandiera al vento. Il vescovo, affacciato al finestrino a benedire, sembra un vero principe della Chiesa: mantella, fascia e zucchetto viola, una pesante croce pettorale che ondeggia su e giù, al ritmo delle buche sul fondo stradale, e un paio di occhialini tondi sul naso che gli danno un'aria molto "pacelliana". Lo scenario di questo trionfale ingresso, però, viene turbato per un attimo da un imprevisto che ha qualcosa di profetico. Tra le due ali di folla si fa largo una piccola figura cenciosa: è un indio, sporco in viso e coperto da un poncho smandrappato, che si avvicina al finestrino dell'auto e, rivolto al vescovo, lancia uno stupefacente grido di giubilo: «Por fin has venido, taita-amito!».
Le parole di questo sconosciuto indio («alla fine sei arrivato, papa-padroncino») risuoneranno per molto tempo nelle orecchie di Proano. Taita-amito è l'appellativo con cui i quechua chiamano i parroci delle comunità indigene. Da una parte, dunque, l'esclamazione mostra un affetto sproporzionato e anche un po' assurdo nei confronti del vescovo diocesano, un'autorità fino ad allora distante, ieratica, avvolta da nuvole d'incenso. D'altra parte, la frase mette a nudo, in poche parole, la dura realtà di cui sono fatte le relazioni tra la potente Chiesa cattolica del tempo e le poverissime comunità indigene del paese, e della provincia del Chimborazo in particolare.
Per comprendere la situazione, occorre fare un rapido excursus storico.
L'Ecuador diviene indipendente nel 1830. La Costituzione repubblicana del tempo proclama che «la religione cattolica è la religione di Stato» e aggiunge che «è un dovere del governo, nell'esercizio del patronato, proteggerla attraverso l'esclusione di qualsiasi altra». L'articolo 68, inoltre, nomina i parroci «tutori e padri naturali dell'innocente, abietta e miserevole razza indigena». In questo modo, la Repubblica raccoglie e formalizza la triste eredità coloniale. Dalla Conquista del 1492 in avanti, la Chiesa è stata un pilastro della dominazione spagnola sulle popolazioni indigene. Da queste parti non ci sono state figure come Bartolomé de las Casas o Antonio de Montesinos. Il catechismo che i curas doctrineros insegnano, spesso ricorrendo all'appoggio del braccio secolare, assomiglia più che altro a un pantheon pagano: in cima a tutto c'è Dio, la cui immagine è quella di un grande latifondista, Amo Bendilo, padrone benedetto del ciclo e della terra; subito dopo ci sono gli altri amos, i padroni delle terre e delle haciendas, i latifondisti; dopo ancora ci sono i taita-amitos, i preti, cui bisogna rivolgere la parola solo dopo essersi inginocchiati e aver biascicato Yalabado, il mottetto in lode del Santissimo Sacramento.
Bisogna aspettare gli anni Sessanta del nostro secolo per veder cambiare un po' le cose: nel 1964, una legge di riforma agraria abolisce il huasipungo, il sistema feudale in base al quale i contadini che lavorano nei latifondi (spesso di proprietà di enti ecclesiastici) non vengono retribuiti con un salario, ma con l'usufrutto di un modestissimo appczzamento della terra peggiore, da cui debbono cavare il proprio sostentamento. Sul versan¬te ecclesiale, è solo il Concilio a buttare a mare certe vecchie tradizioni feudali che hanno messo radici nella Chiesa ecuadoriana. Fino ad allora, gli indios pagano le decime alla Chiesa prima di ogni confessione e prima della comunione il giorno di Pasqua; al parroco devono offrire le primizie del raccolto; spesso sono chiamati a delle mitas, lavori obbligatori per la costruzione, ad esempio, di una cappella o di un convento; infine, ogni servizio religioso, dal battesimo al funerale, ha una sua tariffa che, nei casi convenienti, può essere anche pagata in natura.
Questa, grosso modo, è la situazione che trova Leonidas Proaño al suo ingresso in diocesi. Una situazione in cui, come dice padre Agustìn Bravo, gli indios erano «proprietà privata della Chiesa, il nostro latifondo pastorale». Proaño come reagisce? Colui che voleva arrivare a essere il parroco degli indios si ritrova vescovo della diocesi con la maggiore percentuale di indigeni nell'Ecuador, nella zona più impoverita e arida del paese. Si sente profondamente interpellato. Scandalizzato da ciò che vede, è spinto a riflettere e a tirarsi su le maniche.
Alcuni mesi dopo l'ingresso a Riobamba, il professor Roberto Morales Almeida, suo vecchio insegnante di Ibarra, gli scrive, spronandolo a scrivere una lettera pastorale sugli indios. La risposta di Proaño, datata 10 ottobre 1954, vale la pena di essere riportata quasi integralmente:
“Lei mi chiede quando scriverò una lettera pastorale sugli indios? Quando potrò concretizzare un obiettivo e trasformare in opere i miei sogni. Non voglio semplicemente aumentare la letteratura sull'indio. A che prò? Quando potrò dire: «Faremo questo in loro favore», allora scriverò. Credo però che questo giorno tarderà, perché il problema dell'indio è complesso e formidabile, e non c'è modo di dargli soluzioni parziali, né io lo voglio. Se ci lamentiamo della situazione dell'indio in altre province, che dire della sua situazione nel Chimborazo? È da piangere. Vestono di nero o di grigio. Non portano i colori vivaci degli indios di Imbabura. Hanno un aspetto sudicio, ripugnante. Non si lavano mai. Con i capelli tutti arruffati davanti alla faccia, non gli resta neppure mezzo dito di fronte. Mi creda: molte volte non ho neppure dove fare l'unzione in occasione delle cresime. Neri e cariati i denti. La loro voce sembra un lamento. Hanno uno sguardo da cani maltrattati. Vivono - Signore, come vivono! - in capanne della grandezza di una tenda da campeggio, o come topi, in buche scavate nella terra. Sfruttati senza misericordia dai grandi milionari della provincia che, dopo aver venduto i loro raccolti, se la svignano a Quito, a Guayaquil, nelle grandi città dell'America o dell'Europa, a buttare via il denaro spremuto da questo miserabile straccio che è l'indio del Chimborazo. Quando vedo questo, mi sento un peso sul cuore e intuisco l'opera formidabile che è il problema della sua redenzione”.
Proaño, poi, racconta al professor Morales che nella diocesi si contano circa 160 mila indios, al cui confronto «gli indios di Imbabura sono signori». E conclude: «Io vorrei dare all'indio coscienza della sua personalità umana, terre, libertà, cultura, religione... Come ottenere tutto questo? Quando ci penso, mi si crea il buio nella testa. Ma non voglio perdermi d'animo».
Non si perderà d'animo, monsignor Proaño. I primi anni li dedicò soprattutto a visitare la diocesi, villaggio per villaggio, viaggiando in auto o, dove non arrivava l'auto, a cavallo o a piedi. Queste visite pastorali, che compie prendendo a modello lo stile del vescovo di Ibarra, Cèsar Mosquera, sono assai istruttive, per non dire scioccanti. Di fronte agli indios del pàramo (che per rispetto gli danno la mano "incartandola" nel poncho, in modo da non sporcare la sua mano di vescovo con le loro di campesinos) rimane senza parole. Ma non è ancora il tempo delle innovazioni pastorali.
Proaño vive una trasformazione interiore lenta, senza miracolose "conversioni" o bruschi cambiamenti di rotta. In questa prima fase, dunque, è ancora per molti aspetti un vescovo tradizionale. Nelle sue visite pastorali, ad esempio, veste sempre in abiti ecclesiastici "protocollari", con fascia viola e mozzetta. Dedica molti sforzi al mantenimento del prestigio della cattedrale della città. Incoraggia l'attività delle associazioni che esprimono una pietà tradizionale, come la Legio Mariae. Si preoccupa della difesa dei diritti della Chiesa e dei buoni costumi. Cerca, soprattutto, di aumentare il numero delle vocazioni sacerdotali, tipica cartina di tornasole dell'operato di quello che allora veniva considerato un buon vescovo. Non a caso, come primo atto ufficiale, il 15 agosto 1954, scrive una lettera pastorale in cui preannuncia la fondazione del seminario minore, di cui la diocesi era sprovvista, e che verrà battezzato "La Dolorosa".
Insomma, Proaño è un po' bruco e un po' farfalla. Sta maturando grandi cambiamenti, ma non se ne vedono ancora i risultati. Nel 1955 fonda la rivista diocesana «Mensaje», che rimarrà in vita fino al 1961, su cui tiene una rubrica di colloqui con i fedeli intitolata "Conversazioni con i miei figli".
Sull'onda della prima Conferenza dei vescovi latinoamericani, che si tiene a Rio de Janeiro nel 1955, il vescovo di Riobamba lancia un "piano pastorale" diocesano che, accanto ad aspetti decisamente tradizionali (per esempio, l'impegno contro la propaganda laicista e socialista, o la promozione delle vocazioni al sacerdozio), presenta alcune novità interessanti: innanzitutto, il metodo complessivo, di ispirazione jocista, che prevede come primo passo la «conoscenza della realtà»; e poi l'attenzione al mondo indigeno delle campagne, sfruttato e analfabeta, nonché alcuni abbozzi di idee che verranno sviluppate più avanti, come la creazione di comunità di lavoro o di cooperative contadine.
Nel 1958 ospita a Riobamba l'abbé Pierre, già molto noto in Francia per le sue battaglie in favore dei diseredati e dei senzatetto: incontro che avrà un certo influsso su Proaño. Sempre nel 1958 dedica la sua terza lettera pastorale (la seconda, sulla quaresima, è del 1957) al tema della politica: un documento molto netto in cui attacca i partiti che esprimono posizioni contrarie alla dottrina della Chiesa (i liberali, in particolare) ed esprime un velato appoggio al partito conservatore ecuadoriano, espressione dell'oligarchia latifondista della Sierra.
Qualche mese dopo questa lettera così tradizionale, però, monsignor Proaño fonda un'opera che provoca mormorii tra i potenti della provincia.
Il 14 maggio 1958 nasce la Casa indigena "Nuestra Senora de Guadalupe", affidata alle cure delle suore missionarie laurite. È l'inizio della pastorale campesina.
Il progetto ha vari obiettivi: far sì che nelle comunità indigene nascano dei ministri della parola autoctoni, creare una coscienza critica cristiana sulla difficile realtà del mondo contadino, allargare la mentalità indigena, aprendola alla modernità ma «senza detrimento dei loro propri valori culturali». L'iniziativa, che nasce in collaborazione con la OIT (Organizzazione internazionale del lavoro) e con la Mission andina, è assolutamente nuova per l'Ecuador. Ed è un passo concreto di Proaño verso il mondo quechua del Chimborazo.
In tutta la sua vita, monseñor scriverà soltanto quattro lettere pastorali, l'ultima nel 1961.
Nessuna di queste sarà dedicata agli indios.
La richiesta del professor Morales, dunque, rimarrà insoddisfatta.
Ma le iniziative che d'ora in avanti prenderanno avvio da questa piccola città andina valgono quanto un'enciclica.
A Riobamba, tutti i maggiorenti della città pretendono di avere un po' di sangue blu nelle vene. L'aristocrazia agraria - che, insieme alla diocesi, possiede praticamente tutte le terre coltivabili della provincia - si è sempre fatta un vanto di avere porte aperte in vescovado. Ma ora, con il nuovo prelato, questo giovane plebeo di nome Leonidas Proaño, qualcosa comincia a non funzionare più. Sin dall'inizio del suo incarico, monseñor ha dato mostra di una evidente mancanza di "stile episcopale": ad esempio, nel suo ufficio riceve tutti, eleganti padroni e miseri contadini, senza distinzioni. E le raffinate signore che vanno a invitarlo a un ricevimento devono aspettare il loro turno, precedute magari da uno sporco e puzzolente indio vestito di poncho, che va a chiedergli aiuto per la sua comunità, sperduta su chissà quale montagna. Questi "difetti" del nuovo vescovo vengono tollerati per i primi anni: li si attribuisce all'inesperienza o alla carenza di buone frequentazioni del giovane ecclesiastico. Ma, a mano a mano che il tempo passa, i motivi di malumore per gli esponenti dell'oligarchia di Riobamba aumentano.
La fondazione della casa indigena delle missionarie laurite ha dato adito ai primi mugugni. Perché si va a impicciare della cosiddetta "promozione" degli indios, questa razza incivile e senza speranze?, si chiedono le grandi famiglie. Ma presto ben altre lamentazioni saliranno dai piani nobili dei palazzi cittadini.
Nel 1959 nasce il gruppo "Giovanni XXIII".
È costituito da una decina di sacerdoti, i più vicini al vescovo, che si riuniscono settimanalmente in curia con Proaño. L'anima del gruppo è padre Jorge Mencìas, un coraggioso prete che ha lasciato Ibarra per lavorare a fianco di monseñor. L'obiettivo del gruppo è quello di stringere i rapporti di amicizia e creare un'atmosfera di relazioni fraterne nel clero che opera in diocesi. «Leggevamo all'inizio il capitolo di qualche libro che ci facesse riflettere sulla nostra vita spirituale» racconta Proaño. «Dopodiché, studiavamo alcuni temi di carattere pastorale e prendevamo alcune decisioni. Per me, fu un'esperienza incoraggiante. Trovai eco alle mie inquietudini e alla mia tendenza a rompere certe barriere che potevano rinchiuderci nella passività e nella routine».
Il vescovo e il gruppo "Giovanni XXIII" decidono di cambiare lo stile degli esercizi spirituali per i preti della diocesi, che si tengono ogni anno. Non più il solito predicatore, nel solito convento della città, ma un'altra sede e altri predicatori, per lo più sacerdoti secolari, che provengono dalle varie diocesi ecuadoriane. Cessa poi il silenzio totale, che era d'obbligo durante gli esercizi. Anzi, si discute in piccoli gruppi e ci si confronta poi in assemblea. Infine ci si apre a tematiche che travalicano i confini nazionali.
Si scopre -attraverso i documenti del CELAM - la dimensione latinoamericana. Queste novità non vengono apprezzate da tutti i sacerdoti della diocesi. Specialmente in città, alcune parrocchie tenute da religiosi sono considerate delle lucrose sine cura. I cambiamenti mettono a rischio preziosi privilegi.
Nel 1960 Proaño dà vita a un'altra iniziativa "pericolosa": il CEAS, “Centro de estudios y accion social”, un'organizzazione per la ricerca socio-economica e la promozione di cooperative agricole nel Chimborazo. In estate si era svolto un corso su "La politica dello sviluppo e il movimento cooperativo", cui avevano partecipato una trentina di giovani della diocesi. Relatore era stato il professor Rudolf Reszohazy, docente dell'Università cattolica di Lovanio. Il corso ebbe un tale successo che si decise di dar vita a un organismo che promuovesse la nascita di cooperative di contadini. Da qui l'idea del CEAS.
Sempre nel 1960, monsignor Proano partecipa - come delegato sostituto - all'assemblea del CELAM che si tiene a Buenos Aires. Qui ha l'opportunità, per la prima volta, di venire a contatto e di allacciare i rapporti con la dirigenza del CELAM: Darìo Miranda, Manuel Larraìn e Helder Camara. Il tema di studio dell'assemblea è la "pastorale d'insieme" e la relazione di monsignor Larraìn impressiona Proaño in modo particolare. Di ritorno a Riobamba, decide di mettere in questione il piano pastorale elaborato solo due anni prima. «L'esperienza ci fece scoprire che qualunque piano di lavoro doveva essere elaborato non da una persona sola, neppure se si tratta del vescovo, ma insieme alle persone interessate, meglio ancora insieme al popolo».
A partire da quell'anno, e per tre anni di seguito, invita ogni estate il canonico francese Ferdinand Boulard, sociologo della religione ed esperto di "pastorale d'insieme", che sarà poi perito al Vaticano II. Con l'avvicinarsi dell'inaugurazione del Concilio, che è stato annunciato da papa Roncalli il 25 gennaio 1959 e si aprirà nell'ottobre del 1962, l'attivismo di Proaño si fa frenetico. Le relazioni con il Consiglio episcopale latinoamericano si fanno più strette: diventa delegato titolare dell'episcopato ecuadoriano e, subito dopo, viene eletto presidente del Dipartimento della pastorale d'insieme del CELAM.
A Riobamba, però, la resistenza ai cambiamenti introdotti dal vescovo si fa durissima. Dopo aver avviato un'inchiesta su alcuni scandali avvenuti nella parrocchia di Santa Rosa, una delle più grandi e importanti della città, Proaño ottiene dalla Santa Sede l'allontanamento dei padri domenicani cui la chiesa era affidata. Il caso produce una sollevazione dei settori più potenti di Riobamba, che colgono l'episodio per dare addosso a un prelato sempre meno disponibile ai richiami dell'oligarchia.
Circolano volantini di insulti e lettere anonime.
Proaño riceve minacce di morte al telefono.
Il governatore della provincia inscena una protesta pubblica, salendo sul campanile della chiesa di Santa Rosa, da dove chiama la cittadinanza a raccolta contro il vescovo.
Il clamoroso gesto, però, non sortisce i risultati sperati.
Il giorno dopo, infatti, il presidente della Repubblica Velasco Ibarra destituisce il governatore.
Monsignor Proaño non ama gli atteggiamenti di sfida, non ha pose aggressive, non desidera mettersi in mostra per il suo "decisionismo".
Però, quando prende una decisione, le minacce o le pressioni non lo fanno tornare indietro.
I grandi proprietari terrieri si rassegnano definitivamente all'idea che Proaño non è "uno dei loro".
La "luna di miele" - iniziata al suono delle fanfare il 29 maggio 1954 - è finita per sempre.
Quando, 1' 11 ottobre 1962, papa Giovanni apre solennemente il Concilio pronunciando le parole «Gaudet Mater Ecclesia...», anche a Riobamba si apre simbolicamente una nuova era.
La fondazione della casa indigena delle missionarie laurite ha dato adito ai primi mugugni. Perché si va a impicciare della cosiddetta "promozione" degli indios, questa razza incivile e senza speranze?, si chiedono le grandi famiglie. Ma presto ben altre lamentazioni saliranno dai piani nobili dei palazzi cittadini.
Nel 1959 nasce il gruppo "Giovanni XXIII".
È costituito da una decina di sacerdoti, i più vicini al vescovo, che si riuniscono settimanalmente in curia con Proaño. L'anima del gruppo è padre Jorge Mencìas, un coraggioso prete che ha lasciato Ibarra per lavorare a fianco di monseñor. L'obiettivo del gruppo è quello di stringere i rapporti di amicizia e creare un'atmosfera di relazioni fraterne nel clero che opera in diocesi. «Leggevamo all'inizio il capitolo di qualche libro che ci facesse riflettere sulla nostra vita spirituale» racconta Proaño. «Dopodiché, studiavamo alcuni temi di carattere pastorale e prendevamo alcune decisioni. Per me, fu un'esperienza incoraggiante. Trovai eco alle mie inquietudini e alla mia tendenza a rompere certe barriere che potevano rinchiuderci nella passività e nella routine».
Il vescovo e il gruppo "Giovanni XXIII" decidono di cambiare lo stile degli esercizi spirituali per i preti della diocesi, che si tengono ogni anno. Non più il solito predicatore, nel solito convento della città, ma un'altra sede e altri predicatori, per lo più sacerdoti secolari, che provengono dalle varie diocesi ecuadoriane. Cessa poi il silenzio totale, che era d'obbligo durante gli esercizi. Anzi, si discute in piccoli gruppi e ci si confronta poi in assemblea. Infine ci si apre a tematiche che travalicano i confini nazionali.
Si scopre -attraverso i documenti del CELAM - la dimensione latinoamericana. Queste novità non vengono apprezzate da tutti i sacerdoti della diocesi. Specialmente in città, alcune parrocchie tenute da religiosi sono considerate delle lucrose sine cura. I cambiamenti mettono a rischio preziosi privilegi.
Nel 1960 Proaño dà vita a un'altra iniziativa "pericolosa": il CEAS, “Centro de estudios y accion social”, un'organizzazione per la ricerca socio-economica e la promozione di cooperative agricole nel Chimborazo. In estate si era svolto un corso su "La politica dello sviluppo e il movimento cooperativo", cui avevano partecipato una trentina di giovani della diocesi. Relatore era stato il professor Rudolf Reszohazy, docente dell'Università cattolica di Lovanio. Il corso ebbe un tale successo che si decise di dar vita a un organismo che promuovesse la nascita di cooperative di contadini. Da qui l'idea del CEAS.
Sempre nel 1960, monsignor Proano partecipa - come delegato sostituto - all'assemblea del CELAM che si tiene a Buenos Aires. Qui ha l'opportunità, per la prima volta, di venire a contatto e di allacciare i rapporti con la dirigenza del CELAM: Darìo Miranda, Manuel Larraìn e Helder Camara. Il tema di studio dell'assemblea è la "pastorale d'insieme" e la relazione di monsignor Larraìn impressiona Proaño in modo particolare. Di ritorno a Riobamba, decide di mettere in questione il piano pastorale elaborato solo due anni prima. «L'esperienza ci fece scoprire che qualunque piano di lavoro doveva essere elaborato non da una persona sola, neppure se si tratta del vescovo, ma insieme alle persone interessate, meglio ancora insieme al popolo».
A partire da quell'anno, e per tre anni di seguito, invita ogni estate il canonico francese Ferdinand Boulard, sociologo della religione ed esperto di "pastorale d'insieme", che sarà poi perito al Vaticano II. Con l'avvicinarsi dell'inaugurazione del Concilio, che è stato annunciato da papa Roncalli il 25 gennaio 1959 e si aprirà nell'ottobre del 1962, l'attivismo di Proaño si fa frenetico. Le relazioni con il Consiglio episcopale latinoamericano si fanno più strette: diventa delegato titolare dell'episcopato ecuadoriano e, subito dopo, viene eletto presidente del Dipartimento della pastorale d'insieme del CELAM.
A Riobamba, però, la resistenza ai cambiamenti introdotti dal vescovo si fa durissima. Dopo aver avviato un'inchiesta su alcuni scandali avvenuti nella parrocchia di Santa Rosa, una delle più grandi e importanti della città, Proaño ottiene dalla Santa Sede l'allontanamento dei padri domenicani cui la chiesa era affidata. Il caso produce una sollevazione dei settori più potenti di Riobamba, che colgono l'episodio per dare addosso a un prelato sempre meno disponibile ai richiami dell'oligarchia.
Circolano volantini di insulti e lettere anonime.
Proaño riceve minacce di morte al telefono.
Il governatore della provincia inscena una protesta pubblica, salendo sul campanile della chiesa di Santa Rosa, da dove chiama la cittadinanza a raccolta contro il vescovo.
Il clamoroso gesto, però, non sortisce i risultati sperati.
Il giorno dopo, infatti, il presidente della Repubblica Velasco Ibarra destituisce il governatore.
Monsignor Proaño non ama gli atteggiamenti di sfida, non ha pose aggressive, non desidera mettersi in mostra per il suo "decisionismo".
Però, quando prende una decisione, le minacce o le pressioni non lo fanno tornare indietro.
I grandi proprietari terrieri si rassegnano definitivamente all'idea che Proaño non è "uno dei loro".
La "luna di miele" - iniziata al suono delle fanfare il 29 maggio 1954 - è finita per sempre.
Quando, 1' 11 ottobre 1962, papa Giovanni apre solennemente il Concilio pronunciando le parole «Gaudet Mater Ecclesia...», anche a Riobamba si apre simbolicamente una nuova era.
Tutto l'articolo e la fonte: giovani e missione QUI