sabato 9 aprile 2016

Don Elia sull'Esortazione Amoris Laetitia: "Geniale astuzia gesuitica. Se non altro, bisogna dargliene atto"

La “dolce morte” della Chiesa

Geniale astuzia gesuitica.
Se non altro, bisogna dargliene atto. 
Con l’esortazione apostolica sulla famiglia è riuscito a catturare e calamitare su di sé l’attenzione universale, compresa quella di chi lo detesta. 

Tutti col fiato sospeso in attesa che scoccasse la fatidica ora. 
Mai la pubblicazione di un documento del Magistero aveva provocato tanta suspense ed era stato atteso con tanta trepidazione, seppure di segno diverso a seconda degli schieramenti. 
Che si sia d’accordo o meno, una simile ansia, da sola, ha comunque conferito al documento una risonanza enorme a livello mondiale, fuori e dentro la Chiesa. 
Non c’è che dire: un altro colpo da maestro nella strategia di manipolazione collettiva di cui tutti, nolenti o no, siamo inevitabilmente vittime – forse, come potremo verificare nei prossimi mesi, il colpo più devastante degli ultimi tre anni.
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I commenti, in senso favorevole o contrario, saranno d’obbligo e si moltiplicheranno a dismisura su siti e testate di ogni orientamento, continuando a tenere incollato l’interesse di tutti su un testo che, secondo l’ormai collaudata tecnica, non contiene dichiarazioni che contraddicano nettamente il deposito della fede, ma insinua l’eresia sotto forma di mantra ossessivi: accoglienza, inclusione, misericordia, compassione, inculturazione, integrazione, accompagnamento, gradualità, discernimento, coscienza illuminata, superamento di schemi rigidi o sorpassati… 
Chi può contestare una tale esortazione alla (apparente) carità evangelica senza passare per un ottuso e insensibile difensore di dottrine astratte, formulate in modo non più compatibile con la situazione odierna? 
Se – a quanto si afferma – il matrimonio cristiano (che i nostri genitori, nonni e bisnonni hanno normalmente vissuto, pur con tutti i loro limiti e sforzi) è un ideale cui tendere e non più la vocazione ordinaria del battezzato, elevata e fortificata dalla grazia, chi siamo noi per giudicare famiglie ferite e situazioni complesse?
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A voler pizzicare il testo su qualche preciso svarione dottrinale, d’altronde, si ha l’ormai consueta impressione di essere alle prese con un oggetto viscido e sfuggente che non si lascia afferrare da nessun lato: non c’è un pensiero articolato e coerente, non c’è uno sviluppo teologico argomentato, ma un’iterazione snervante di ricorrenti temi con variazioni che, in appena trecentoventicinque paragrafi, stronca qualsiasi resistenza mentale e psicologica. 
Il realismo cui insistentemente ci si appella non è quello dell’interazione tra natura e grazia, tipico della tradizione cattolica, ma quello della sociologia e della psicanalisi, che ignorano completamente l’azione della grazia – se non intesa nel significato improprio di conforto psicologico – e considerano la natura esclusivamente nella sua disperata incapacità di correggersi. Di conseguenza l’unica soluzione possibile, nell’immancabile ospedale da campo, non è curare le malattie con una terapia adeguata, ma “aiutare a morire” pazienti accolti, integrati e felici di esserlo. 
Che dire? 
Eutanasia dello spirito…
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Frammisti a questa logorroica e interminabile ricetta, espressi in forma ambigua o imprecisa, nel penultimo capitolo (quello decisivo) arrivano infine gli errori formali, quando l’esausto lettore, indottrinato dai trecento paragrafi precedenti, non è più in grado di reagire. 
Finalmente qualcosa a cui aggrapparsi per denunciare – ciò che si spera comincino a fare vescovi e cardinali – un’esplicita deviazione dottrinale! 
L’errore più grave, da cui discendono gli altri, riguarda l’imputabilità morale degli atti umani, che non sempre è piena. 
Verissimo per singole azioni; peccato che le cosiddette situazioni irregolari siano stati durevoli e condizioni stabili in cui non si può cadere per debolezza o inavvertenza, ragion per cui l’osservazione non è pertinente. 
Da questo errore di prospettiva deriva l’opinione che non tutti coloro che vivono una situazione coniugale irregolare siano in peccato mortale, privi della grazia santificante e dell’assistenza dello Spirito Santo. 
Ciò può risultare vero unicamente in presenza dell’ignoranza invincibile: ma è un’ipotesi ammissibile, in questo caso? Nell’eventualità, compito di ogni fedele – e a maggior ragione di ogni sacerdote – è proprio quello di istruire gli ignoranti. 
Di conseguenza, affermare che chi è in stato di peccato grave è membro vivo della Chiesa non può non essere falso: il peccato mortale si definisce appunto come morte dell’anima. 
Se poi, su questa china, si arriva ad asserire che l’adulterio permanente può essere per il momento «la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo» (Amoris laetitia, 303), siamo alla bestemmia. 
A rimediare non basta una citazione di san Tommaso, strumentale e strappata al contesto; è il metodo dei Testimoni di Geova.
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Fonte La scure

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